Diciotto dicembre millenovecentonovantanove, mancano poco più di 10 giorni giorni al nuovo millennio e pochi minuti alla fine di una partita di calcio. Stadio San Nicola, Bari, minuto ottantotto, l’ambiziosa Inter di Marcello Lippi e di “mister 90 miliardi” Christian Vieri stanno pareggiando 1-1.
Simone Perrotta, uno di quei mediani che vinci casomai i mondiali e che li vincerà sul serio, lancia, sul versante sinistro, poco dopo il centrocampo, con la maglia numero diciotto c’è un ragazzo del settore giovanile, 17 anni, di Bari, vecchia, e non si tratta di un dettaglio.
Il diciotto in maglia biancorossa controlla di tacco destro senza arrestare la corsa, si aggiusta il pallone di testa, è una scheggia rapida che corre verso la porta dell’Inter.
Arriva in area di rigore, cambia gioco, di contro balzo sfiora con l’interno sinistro e accarezza con la punta destra, si beve Blanc, difensore e leader della Francia campione del Mondo nel 1998, e Panucci, due Champions League in bacheca, si sbilancia, incrocia il tiro sul palo corto. Gol.
Quel sabato sera con la voce di Fabio Caressa a fare da sottofondo, in quella corsa di quel 1982, come si dice in ambienti sportivi, con la maglia larga come si usava una volta ci siamo rivisti un po’ tutti e non solo chi, come me, un esordio così lo sognava.
Il numero diciotto del Bari si chiamava Antonio, Antonio Cassano, e nel suo gesto tecnico c’erano tutte le nostre speranze; di chi giocando prima per strada, con due zaini a fare da porta, e poi col borsone sulle spalle ad allenamento tutti i pomeriggi, di chi scendeva in campo il sabato pomeriggio alle 14.30 e non vedeva l’ora di mettere un piede su un campo da gioco “vero”, in uno stadio di Serie A, perché se un tuo coetaneo fa gol all’Inter allora i sogni che siano di calcio o di rock ‘n roll sono più che legittimi.
Già perché il diciassettenne Cassano con quel fisico tozzo, senza addominali, col viso butterato era stato capace di prendersi la scena contro quelli più belli, più ricchi e più famosi. Su un campo di calcio si stava compiendo la rivincita di chi a scuola era perennemente ignorato dalla ragazza più carina. Quel gol – fatto in quel modo – era come presentarsi alla festa “di quelli che contano” senza invito, in tuta, e non solo riuscire ad entrare, no molto più: riuscire a prendersi la scena. Più che una speranza, un sogno proibito, una rivoluzione.
Quella sera di dicembre di vent’anni fa non sapevamo ancora come sarebbe finito Beverly Hills 90210, se Kelly avrebbe scelto tra Brandon e Dylan, o se Donna e David alla fine si sarebbero sposati, non ci eravamo ancora appassionati al triangolo Dawson-Pacey-Joey e non avevamo ancora storpiato “I don’t want to wait” di Paula Cole in anowonowai. Ci facevamo gli squilli sul cellulare per dire “ti penso”, scrivevamo cmq per dire comunque, tvb per dire ti voglio bene, msg per dire messaggio perché i caratteri negli sms erano preziosi e i messaggini costavano (saremmo poi passati a scrivere messaggi senza spazi scrivendo in maiuscolo l’iniziale della parola seguente).
Uomini e Donne era ancora un talk show, i tronisti non esistevano ancora, il cinema avrebbe reso meta di pellegrinaggio un quartiere residenziale nella zona ovest di Londra, Gabriele Muccino scriveva il suo primo manifestino generazionale.
Si compravano i compact disc, ma internet, che di li a poco avrebbe cambiato le nostre vite, iniziava a rompere questa consuetudine. Passavamo i pomeriggi a guardare MTV. La musica era quella delle Spice Girls, dei Backstreet Boys, di improbabili cantautrici come la norvegese Lene Marlin o l’indonesiana Anggun.
Avevamo passato l’estate a ballare Mambo number 5, Blu degli Eiffel 65 all’Aquafan di Riccione, Cesare Cremonini cantava coi Lùnapop e tra scanzonati giri in Vespa, romantiche ballate (Vorrei, Niente di più…) e hit generazionali (Un giorno migliore, Qualcosa di grande) stava entrando nelle nostre vite. La colonna sonora di Notting Hill firmata da Ronan Keating è la canzone d’amore del momento, anche se alla fine è Britney Spears la reginetta incontrastata del pop.
Quel lampo di classe, nella notte del San Nicola, stava trasformando la vita di Cassano in un sogno. Noi, che per dirla come il giornalista del Corriere della Sera e scrittore Tommaso Labate saremmo diventati Rassgnati sognando la Kelly Taylor di Beverly Hills e ritrovandoci Luigi Di Maio al Governo, eravamo seduti in prima fila per rincorrere i nostri sogni.
Nessun altro giocatore, dopo Cassano, è riuscito con una singola giocata a rappresentare la nostra voglia di giocare – nell’accezione primordiale del termine, quella voglia che spinge i bambini ad ogni latitudine a correre dietro ad una palla – di fare sogni grandi, spesso oltre ogni ragionevole logica, di fotografare un momento, un singolo momento, e trovarlo perfetto da mettere nell’album dei ricordi più belli anche se la foto è sgranata e si vede male.
Sono passati 20 anni ma ognuno di noi – diciassettene nel 1999, con la passione per il calcio – ricorda dov’era quella sera, cosa sognava in quei giorni, cosa scriveva sul diario, quasi sempre una Smemoranda.
La stella di Cassano ha smesso di brillare presto, il suo talento è rimasto selvaggio, si è perso proprio come spesso si perdono i sogni ed è proprio questo che lo ha reso così vicino a tutti noi. Si è dissolto col passare dei giorni tra alti (pochi) e bassi (tanti), ma quel gol, quel singolo istante, rimane e rimarrà per sempre.
Antonio Cassano che corre verso la porta avversaria siamo noi in un preciso istante della nostra vita, a 17 anni, con la nostra sfrontatezza, con la paura per la quale non c’è tempo, con i nostri pomeriggi ad allenamento, con l’istinto e le regole da non rispettare. Veloci verso la porta avversaria o in sella ad un motorino con quella voglia di sentire il vento sulla faccia, anche quando fa freddo, con la notte prima degli esami ancora sconosciuta (Fausto Brizzi la renderà indelebile 7 anni dopo) e lontana e la gioventù a renderci felici ed invincibili proprio come quel giocatore.