C’è un riflesso condizionato in una parte della sinistra italiana ed europea che, non appena percepisce un movimento in America Latina pensa sempre di essere di fronte al remake della stagione di Che Guevara oppure di Allende. E’ stato così con il Sub Comandante Marcos, con Chavez, con Morales, e ora questo sentimento sembra riaffacciarsi con quello che sta accadendo in Cile.
Dal 18 ottobre nel paese sudamericano ci sono manifestazioni ogni settimana. La scintilla: l’aumento del prezzo del biglietto della metropolitana. La causa: l’intollerabilità della disuguaglianza frutto del neoliberismo. L’obbiettivo politico: le dimissioni del Presidente della Repubblica. É appena il caso di notare che il Cile è una repubblica presidenziale e secondo la sua Costituzione le dimissioni del Presidente a meno di due anni dall’insediamento darebbero luogo a elezioni anticipate in 60 giorni. Potrebbe essere un tempo sufficiente ai manifestanti per organizzare una proposta politica? Evidentemente no.
Cosa sembra esserci allora dietro questo movimento. Molta esasperazione, e pure giustificata, ma pure nessun progetto. Lo dimostrano i saccheggi e gli incendi che hanno accompagnato da subito le grandi partecipazioni di piazza. Una rivolta comprensibile ma più simile alle rivolte contadine premoderne che non a quelle manifestazioni destinate a cambiare per sempre la storia e il costume di una Nazione se non di un continente. Si contano al momento 23 morti. Non è poco, ma quando si va a cercare di capire come si siano verificati questi decessi si scopre che la maggior parte sono avvenuti nei primi giorni causati proprio dai disordini e dagli incendi.
Questo non significa che non ci siano stati abusi da parte dei Carabineros ma che, per quello che evocano a tutti, a cominciare dai cileni stessi, i fatti di questi giorni sono vissuti con una emotività assolutamente controproducente. Emblematica la vicenda di Daniela Carrasco, conosciuta come “el mimo” trovata senza vita il 20 ottobre e diventata subito nell’immaginario del movimento la vittima della nuova violenza di Stato. Con il passare dei giorni è emerso che non ci sarebbe stata nessuna violenza e si tratterebbe di suicidio.
Tutto questo non per giustificare qualcuno ma per affermare che la situazione non si presta a facili ed infantili manicheismi. Anzi, se c’è stata una rivelazione in queste vicende è stata proprio il palesarsi di un fenomeno che potremmo definire: fake news di sinistra, non ispirate dall’odio ma pur sempre notizie alterate se non proprio inventate.
Peraltro, che i Carabineros siano tra le polizie più brutali del mondo non è una notizia. Per il trentennale del golpe, nel settembre 2003, con un governo di centro sinistra, dispersero con lacrimogeni e idranti una pacifica manifestazione al cimitero di Santiago. Ma appunto, questo potere dell’esercito è una questione istituzionale. Non si supera con manifestazioni di piazza ma con una riforma della Carta Fondamentale
L’altra grande semplificazione è Piñera come Pinochet. Ora, un Presidente che dopo le manifestazioni fa marcia indietro sul provvedimento, che cambia 8 ministri del governo a cominciare da quello dell’interno, che dichiara lo stato d’assedio salvo toglierlo dopo qualche giorno in fretta e furia, che infine dichiara di “essere in guerra” e viene puntualmente smentito da un suo generale che parallelamente dichiara: “non sono in guerra con nessuno” fa assomigliare tutta questa situazione più al fantozzismo politico che al pinochettismo.
Per questo, seria e opportuna sembra l’iniziativa presa anche dall’opposizione nel Congresso che ha portato ad una accelerazione nel processo di riforma della Costituzione. II 15 novembre scorso governo e opposizione si sono accordati per un percorso da compiere nel 2020 verso una nuova Costituzione, percorso contenente innanzitutto un referendum d’indirizzo sul se cambiarla o no, quindi un secondo su come eleggere l’organo deputato a questa riforma. E’ una, forse la principale, proposta maturata in questi 40 giorni.
“Esta no es una crisis del gobierno de Piñera, es una crisis del Estado de Chile”, sono parole di Ricardo Lagos, Presidente della Repubblica dal 2000 al 2006. Sono parole preoccupate, avvertite, che fanno capire la gravità e la complessità della sfida e che non semplificano in buoni e cattivi, vittime e carnefici, manifestanti onesti e politici corrotti.
Eppure nella lettura de fatti del Cile da parte di certa nostra sinistra ci si eccita immediatamente all’idea del nemico, del nuovo Pinochet, pur non possedendo nessun progetto credibile alternativo e a Piñera e al neoliberismo. Anzi se proviamo a fare un’analisi seria, se proviamo a tornare a Marx, almeno nel metodo, scopriremmo che i prezzi del rame e del litio, due fondamentali commodities cilene negli ultimi due anni o si sono fermati o sono calati, e che forse l’acuirsi dello scontento deriva anche da problemi di bilancio causati da queste minori entrate.
In conclusione, pensare che le rivolte cilene siano prodromiche a rivolte mondiali contro il neoliberismo sembra non tanto una pia quanto una pericolosa e velleitaria illusione. Non esiste niente di simile in nessun altro paese dell’America Latina. Del resto il solo pensare che un regime come quello venezuelano possa benedire le manifestazioni cilene determinerebbe un crollo verticale di consenso e credibilità a tutto il movimento cileno. Né francamente, l’internazionale femminista costruita sull’inno: Un violador en tu camino che ha unito nella giornata del 29 novembre Santiago con Madrid Barcellona e Parigi sembra potere avere concrete ricadute politiche.
Eppure ancora da noi e, nonostante la lezione di Gramsci, c’è una sinistra infantile, inconcludente e velleitaria, priva della benché minima cultura istituzionale, e con una scarsissima cultura economica che, brandendo le dita sullo smartphone, come fosse una spada laser, mulina parole al vetriolo contro i riformisti e gioca a fare la rivoluzione con il culo degli altri.