Il tanto atteso summit nel formato normanno è finito nella solita aria fritta, messa nero su bianco nel comunicato finale pubblicato dall’Eliseo. In sostanza Ucraina e Russia, con la mediazione di Francia e Germania, si sono impegnate a rilanciare il dialogo nel Donbass, in stallo da qualche annetto. La guerra nel sudest prosegue sottotraccia e continua a fare morti, siamo arrivati a oltre 13mila. Senza contare oltre un milione di profughi, tra quelli interni ucraini e chi ha preso definitivamente la via della Russia.
Il faccia a faccia tra Putin e Zelensky si è risolto nel nulla e il presidente ucraino continua sulla falsariga del suo predecessore Poroshenko. Con queste premesse non ci si può aspettare nulla di nuovo per il futuro prossimo. E nemmeno a lungo termine. Kiev e Mosca si sono accordate per un nuovo, ultimo e completo, scambio di prigionieri, che dovrebbe avvenire entro la fine del mese. Sempre nelle prossime tre settimane la tregua deve essere rafforzata e deve anche proseguire il ritiro delle armi pesanti dalla linea del fronte, sempre sotto l’osservazione dell’Osce. Anche le misure umanitarie dovranno essere intensificate. Condizionale dappertutto d’obbligo. Fine della trasmissione.
Tutta roba già fissata negli accordi di Minsk del 2015, firmati da Poroshenko e Putin. I nodi politici, a partire da quello delle elezioni locali nel Donbass e dello status delle regioni occupate, nel vertice di Parigi non sono stati ovviamente sciolti e tutto e’ stato rimandato alla prossima primavera. Fra quattro mesi ci dovrebbe essere un nuovo incontro a quattro per fare il punto della situazione. Le sanzioni contro la Russia saranno prolungate di altri sei mesi, il Cremlino starà alla finestra e la Bankova avrà il suo bel da fare a mantenere le promesse.
Il processo di pace fissato a Minsk si é incastrato non solo per colpa della Russia, che ha sempre continuato a sostenere i separatisti, ma anche di Kiev si é ben guardata dal soddisfare la parte politica dell’intesa, che riguarda l’autonomia delle regioni ribelli. Zelensky é in una posizione complicata, incalzato dall’ala nazionalista che non vuole scendere a compromessi con la Russia. Paradossalmente Poroshenko guida dall’opposizione la linea dura contro quella che sarebbe considerata una sorta di capitolazione e che in realtà non sarebbe altro che l’implementazione degli accordi del 2015, da lui stesso sottoscritti, che prevedono prima le elezioni locali, poi la ripresa del controllo della linea di confine da parte della Russia. Per non parlare delle riforme costituzionali.
Putin continua ad avere il coltello dalla parte del manico e a insistere su Minsk, anche nella cosiddetta e semplificata “formula Steinmeier” perchè sa che la Bankova, già col suo primo inquilino che aveva promesso di riportare ordine nel Donbass, si é infilata in un tunnel. Ieri a Parigi c’era pure il ministro degli interni ucraino Arseni Avakov, quello che nell’aprile del 2014 aveva lanciato la cosiddetta operazione antiterrorismo affermando che in 48 ore avrebbe ricondotto Donetsk e Lugansk all’ordine. Ecco, contro questi fini strateghi e i loro consiglieri dentro fuori l’Ucraina Vladimir Putin ha gioco facile e gli basta stare a guardare.