Politica e biopoliticaIl Raphael e noi. Breve saggio sul craxismo

La fine terrena dell’ultimo segretario del PSI è stata venti anni fa in Tunisia. Ma tutti concordano che la sua “fine politica” sia avvenuta prima, in Italia, a Roma, davanti all’Hotel Raphel, il 3...

La fine terrena dell’ultimo segretario del PSI è stata venti anni fa in Tunisia. Ma tutti concordano che la sua “fine politica” sia avvenuta prima, in Italia, a Roma, davanti all’Hotel Raphel, il 30 aprile 1993. Chi scrive è stato testimone diretto, ma prima di riportare impressioni personali occorrono alcuni elementi di contesto.

Il giorno precedente, 29 aprile, la Camera dei Deputati aveva parzialmente negato, con quattro diverse votazioni, l’autorizzazione a procedere per il leader socialista. A votare contro, una maggioranza netta, in un caso su 561 presenti, 304 contrari e solo 257 a favore. Molto simili i risultati delle altre votazioni. Eppure socialisti e democristiani insieme, con l’aggiunta dei socialdemocratici, arrivavano si e no alla metà dei deputati. Da dove veniva una così netta maggioranza? Furono i leghisti di Umberto Bossi, nascondendosi dietro al voto segreto, a “salvare” Craxi, salvo poi urlare e stracciarsi le vesti al grido “elezioni elezioni”!!!

Il fatto determinò le dimissioni di tre ministri che, la mattina del medesimo giorno 29 aprile, avevano giurato al Quirinale con il nuovo governo presieduto da Carlo Azeglio Ciampi, quindi ancora senza maggioranza parlamentare, governo nato dopo le dimissioni di quello di Giuliano Amato, seguite ai risultati del referendum del 18 e 19 aprile, in cui 28.415.407 italiani pari al’82.57% si erano espressi a favore del maggioritario e contro il proporzionale. Praticamente un referendum sulla Prima Repubblica. Se non si rimettono in fila i fatti, difficilmente le immagini possono restituire la verità storica.

Così, all’indomani del voto, i ministri dimissionari e il PDS convocano un comizio in piazza Navona per rendere ragione delle proprie azioni. Non si ricordano interventi memorabili, però per essere un appuntamento convocato il giorno stesso c’è una certa partecipazione. Al termine, tipo verso le 19.00, un semplice passa parola sulla presenza di Craxi, l’istintiva e reciproca simpatia dei manifestanti muovono una buona parte sotto le finestre della residenza romana del leader socialista. E lì cori e stornelli per un’ora. Tecnicamente si tratta di una “manifestazione non autorizzata”, la polizia potrebbe, legalmente, prima invitare i manifestanti ad allontanarsi quindi in caso di disobbedienza, disperderli con la forza. Ma non succede niente. Anzi, durante i cori e le facezie i poliziotti sembrano addirittura ammiccare, quasi a dire: “ho la divisa e devo stare da questa parte ma se me la togliessi mi unirei a voi”. Nessun coro infatti sarà rivolto contro le forze dell’ordine, tutti solo e unicamente contro l’inquilino più importante dell’Hotel Raphael. Memorabile lo sventolio delle mille lire al ritmo di Guantanamera: “vuoi pure queste, Bettino vuoi pure queste”. Poi venne l’uscita. Lo sguardo. La sfida e le monetine.

Alla fine una densa e profonda, sensazione di liberazione. Lo sguardo che incontrava gli altri manifestanti come a dire: “non perdiamoci di vista”, “rimaniamo amici” “facciamo qualcosa insieme per cambiare questo paese”. Un momento di rabbia e di contestazione ma anche di leggerezza e ironia. Effettivamente le immagini restituiscono una tensione assai prossima alla violenza. Ma così non fu. Il blocco di pochi sparuti poliziotti, forse una decina, contro più di 100 manifestanti nulla avrebbe potuto. Il cordone tenne perché nessuno lo forzò. Nessuno voleva azzannare il “cinghialone”. Solo deriderlo. Questo è stato il pomeriggio del 30 aprile 1993.

Tutto questo per restituire un po’ di memoria profonda a un fatto che è rimasto impresso nella memoria superficiale di tutto il Paese. Ma allora bisogna spiegare le ragioni, fortissime allora e forti ancora oggi dell’anticraxismo che non è, come pure è stato detto, l’anticamera dei populismi. Ma forse proprio il contrario. Una reazione al populismo craxiano. Il primo Presidente del Consiglio populista della storia repubblicana. Ma andiamo con ordine.

L’INTUIZIONE

Il giudizio storico negativo non può portare a negare l’indubbia grandezza. E alla base di ogni grandezza c’è una intuizione: Craxi capisce per primo che, finita la Solidarietà Nazionale, ed entrati negli anni ‘80 di Reagan e Thatcher, DC e PCI sono due balene spiaggiate. Berlinguer senza la sponda di Moro è in totale ripiegamento. L’Alternativa democratica” non vuole dire assolutamente niente. Efficacissima la sua raffigurazione in pantofole da parte di Forattini. Si intesta la “questione morale” ponendosi però in una posizione di sostanziale autoemarginazione rispetto al contesto politico.

Chi parla della rivalità tra i dirigenti comunisti e Craxi negli anni ‘80 dice una mezza verità. Con la morte di Berlinguer e la sconfitta al referendum i comunisti sono archiviati. Ecco allora che a contrastare l’irresistibile ascesa di Bettino Craxi a guida del più longevo governo della Repubblica – almeno fino a quelli di Berlusconi nel 2000 – c’è solo ed esclusivamente una persona, o forse una persona con la sua corrente: Ciriaco De Mita e la Sinistra di Base della DC.

Loro non la DC, che infatti restava una balena spiaggiata preda delle scorribande di Ghino di Tacco – così Craxi amava firmare i suoi articoli – con il nome di un rinomato bandito medievale. La sua grandezza era infatti in un divide et impera, poteva contare su un nutrito gruppo di fiancheggiatori dentro il partito cattolico, a cominciare da Forlani e i Dorotei che avrebbero preferito, e infatti preferirono, a palazzo Chigi, un socialista piuttosto che un loro collega della sinistra del partito. Ma non solo, Craxi poteva contare anche su una corrente amica nel PCI: quella dei miglioristi di Giorgio Napolitano.

E fin qui le intuizioni sulla politique politicienne come si dice. Ma Craxi ne ha avute anche altre, ad esempio sulla trasformazione, avviatasi proprio negli anni ‘80, del rapporto tra classi dirigenti e società, tra leadership e popolo. E’ stato il primo ad avere una cura esigente e professionale della propria immagine, ad introdurre in Italia con il suo PSI la “politica spettacolo”, un modo nuovo, postmoderno, di arrivare a milioni di persone suscitando ammirazione ed emulazione mentre fino a prima aveva dominato il senso di appartenenza ad una grande causa collettiva.

Di qui la sua strenua sfida sia alla DC che al PCI, i grandi partiti fordisti, fatti di serietà e pesantezza, cui opponeva un PSI agile e dinamico, leggero e perfino frivolo, non più il partito del libro e della falce e martello, ma il partito del garofano rosso: una innovazione estetico-botanica destinata a cambiare per sempre la simbologia politica italiana. Da Craxi in poi anche i congressi di partito non sarebbero stati quelli di prima. Adesso il contesto diventava pari se non più importante del testo, la scenografia doveva superare in emozione e stupore la rappresentazione, il contenitore era parte integrante del contenuto. Insomma tutto secondo la lezione della nuova sociologia di Maeshasll Mcluhan: “il medium è il messaggio”. Di qui la mitica “piramide” di Panseca dentro l’ex fabbrica dell’Ansaldo. Una originale, postmoderna e comunicativa: occupazione delle fabbriche.

Dentro questa rivoluzione semantica c’è anche il rapporto con Berlusconi e con i nuovi imprenditori: se la DC e il Pci erano i partiti della grande industria il PSI di Bettino Craxi vuole essere il partito della Terza Italia, della nuova generazione di padroni e padroncini, del Made in Italy, delle PMI tutte creatività ed evasione fiscale in una economia dove la pubblicità e la comunicazione contano più della produzione. Dove il bene materiale da utilizzare o il servizio immateriale da fruire non sono più la risposta ad un bisogno reale ma quella ad un bisogno costruito mediaticamente. Un bisogno indotto, mediatico, uno status symbol. Tutto questo mentre DC e PCI, nati per emancipare dal bisogno le classi lavoratrici, rimanevano piantati sui beni essenziali. Ma Craxi e Berlusconi cavalcavano la nuova egemonia culturale materialistica, quella del possesso dei beni superflui.

Il PSI degli anni ‘80 è il primo partito estetico della storia italiana. Sia nel senso di una sua estetica: il postmoderno, ma sia in senso antropologico. Un partito di esteti, a cominciare dal segretario. Prima il piacere. L’edonismo reaganaiano in Italia diventa l’edonismo craxiano: godere finché si può e senza sensi di colpa. Esibire la propria forza e vitalità senza falsi pudori. Di qui le gesta del ministro Gianni De Michelis in discoteca, e quell’aura charmant interpretata per tutti gli anni ‘80 dal giovane Claudio Martelli, “il bello” per arrivare infine alla fama erotica del capo del partito di cui si enucleavano le numerose amanti non senza un certo compiacimento esibizionista. Ora, non è difficile dedurre come una tale antropologia edonista sia quanto di più lontano, e dalla cultura cattolica e da quella comunista.

LA DISTORSIONE

Tutte queste intuizioni fanno di Craxi il politico più importante degli anni ‘80, quasi un eponimo della decade. Anche al di là dei suoi 4 anni da Presidente del Consiglio. Quello che più ne ha incarnato lo spirito del tempo, spirito che finora non ha ancora avuto una definizione e che potremmo chiamare presentismo. L’Italia di Craxi è il paese che vive completamente e integralmente nel presente. E’ il consumismo senza sensi di colpa che esaurisce nel presente le risorse accantonate per il futuro, è l’Italia che smette di pensare il lungo periodo ma si concentra esclusivamente nei risultati di breve periodo. E’ l’Italia dell’immanenza del qui e ora contro l’Italia della trascendenza, del già e non ancora caratteristica dei cattolici e dei comunisti.

Sono gli anni dell’opulenza e dell’esplosione del debito pubblico. L’Italia smarrisce completamente il senso del limite che aveva caratterizzato la sua crescita impetuosa e frugale e si abbandona a una crescita malata, fatta di alti tassi di interesse sul debito pubblico ed esplosione della spesa pubblica. L’Italia cresce ma è una crescita drogata dal debito. Al dinamismo creativo ma fiscalmente elusivo della Terza Italia delle PMI i socialisti affiancano una occupazione spartitoria del potere nelle aziende di Stato che si appesantiscono di clientelismi e fanno esplodere la spesa pubblica.

Ma la distorsione non è solo nei rapporti tra stato e cittadini, tra politica ed economia è anche in quella tra partiti e cittadini. Craxi plasma il PSI a sua immagine e somiglianza, tanto è vero che non gli sopravviverà: sarà il primo partito personale della storia repubblicana. Anche in questo caso riscontriamo il primato dell’immanenza sulla trascendenza. I partiti dovrebbero sopravvivere al destino dei propri leader in quanto portatori di un ideale superiore e trascendente. Con Craxi questo finisce per sempre.

Eppure la riscoperta di Proudhon fino al cosiddetto “socialismo tricolore” indicano comunque un certo investimento in cultura politica non privo di originalità. Il bilancio però è deludente. Più che una riappropriazione storica e ideologica, più che suscitare una maturazione civile sulla memoria di Garibaldi, questa operazione politico culturale – emblematico il discorso parlamentare dopo Sigonella – ha avuto la funzione sostanziale di alimentare il culto del capo piuttosto che sviluppare un’autentica memoria condivisa nazionale e coscienza condivisa in politica internazionale. I racconti del back stage di Sigonella fatti dall’Ammiraglio Fulvio Martini sono esemplari.

In conclusione, nessuno nega il coraggio politico e l’originalità incarnati dal leader socialista ma esistono diversi modi per esprimere e comunicare i propri successi. Quello inaugurato per primo da Bettino Craxi è stato all’insegna della semplificazione e della disintermediazione. Una politica fondata sull’emozione e sulla decisione, sull’io originale e innovatore contrapposto al noi pachidermico e indeciso a tutto, dei grandi partiti. Tutti elementi che si ritroveranno nel berlusconismo a partite dagli anni ‘90 e nel salvinismo attuali.

Non si tratta di demonizzare, si tratta di capire perché in qualche modo gli anni ‘80 non sono mai finiti. E’ in quella decade infatti che nasce il bipolarismo italiano, bipolarismo antropologico, cultural-politico prima che politico partitico, illeggibile con le sole categorie destra sinistra. I campioni del bipolarismo anni ‘80 furono da una parte Craxi e dall’altra De Mita così come negli anni ‘90 e 2000 Berlusconi al posto di Craxi e Prodi al posto di De Mita. Ovviamente anche il PD è figlio di questo bipolarismo e, nonostante alcune incongruenze, la stessa leadership di Matteo Renzi si inscrive in questa storia. Almeno nel tempo impegnato alla guida del PD e del governo. Tutti e tre, De Mita, Prodi e Renzi hanno interpretato, seppure con stili differenti, quella cultura politica che prova a misurarsi con scelte di lungo periodo, che quindi presuppone azioni di risanamento, ma al tempo stesso lavora per la modernizzazione e la crescita in un equilibrio mai definito e definitivo.

Gli altri no. Gli altri sono i campioni della politica del breve periodo, quella del consenso facile ottenuto dilatando la spesa pubblica, demolendo il senso dello stato e delle istituzioni, dimenticando il senso del limite a partire da quello finanziario e di bilancio. Hanno però dalla loro una diperata ed effervescente vitalità e non è scritto nel destino che per forza debbano prevalere.

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