Puntuale come la morte e le tasse, il 30 dicembre è stato emanato dal Governo il “decreto Milleproroghe”, una sorta di scialuppa di salvataggio di fine anno che, approvata la legge di bilancio, predispone qualche scivolo per prorogare termini fra i più disparati o interviene per consentire di dar seguito al meglio a indicazioni normative sopravvenute ed urgenti. In tema di dirigenza pubblica, ad esempio, ci si adegua (articolo 1, comma 7) alla sentenza n. 20 della Corte costituzionale dello scorso anno con cui la Consulta aveva censurato alcune disposizioni del decreto legislativo che, in materia di trasparenza, aveva erroneamente ampliato anche alla dirigenza pubblica, oltre che agli eletti della politica, l’obbligo di pubblicazione dei dati patrimoniali (se ne parlava, diffusamente, qui). Tra le tante norme affastellate nel decreto, tuttavia, ce n’è una, anch’essa sulla dirigenza, gettata lì quasi casualmente, che sta a testimoniare, ancora una volta, la pervicace testardaggine di certa politica, che non manca dar corpo e vigore al celebre “vuolsi così colà dove si puote”. I fatti: un asciutto comma (comma 6, articolo 1) informa i cittadini che – traduco dal latinourum della tecnica legislativa – si sospende ulteriormente, sino alla fine del 2020, la possibilità di bandire concorsi pubblici per dirigenti generali. Si tratta di una disposizione introdotta dall’allora Ministro Brunetta che intendeva riservare il 50% delle posizioni di dirigenti di prima fascia a procedure concorsuali, sottraendole alla nomina politica, un’innovazione mai digerita da nessuno. Andiamo avanti: lo stesso comma prosegue disponendo che “la percentuale di cui al comma 6 dell’articolo 19 del decreto legislativo 30 marzo 2001, n. 165, può essere elevata dall’8 per cento al 10 per centro, a valere sulle facoltà assunzionali di ciascuna amministrazione”. Traduciamo ancora: se sino ad oggi era possibile contrattualizzare dirigenti non generali, di seconda fascia, senza passare per un concorso pubblico, nella misura dell’8 per centro della pianta organica, ora quella percentuale sale al 10. Ergo, su 100 incarichi di funzione dirigenziale nelle amministrazioni dello Stato, anche ad ordinamento autonomo, 10 potranno essere assegnati ad esterni. Diciamo subito che la dirigenza in quota esterna (e di chiamata politica diretta, almeno per quel che riguarda la dirigenza generale) non è, di per sé, il diavolo incarnato. La norma, introdotta dall’allora Ministro Bassanini, intendeva aprire le amministrazioni, in un momento in cui veniva osannata l’aziendalizzazione a 360 gradi del settore pubblico, a competenze ed esperienze provenienti dall’esterno, seppur ponendo paletti che impedissero che un quisque de populo, per il sol fatto di essere affiliato a quella cordata o a quella parte politica, approdasse illegittimamente ad una posizione pagata dal contribuente. Tuttavia, agli occhi di chiunque mastichi un pochino di amministrazione, i risultati concreti non sono stati certo incoraggianti: non infrequentemente sono stati avanzati dubbi sul fatto che quella tal professionalità non fosse già rinvenibile nella struttura e, soprattutto, l’eccezionalità e la temporaneità del conferimento, che avrebbero dovuto spingere l’amministrazione a darsi da fare per creare in casa quella professionalità che aveva dovuto ricercare nel mercato, non hanno scoraggiato molta politica (e vertici amministrativi) a rinnovare continuamente incarichi su incarichi. Senza contare che, aggirando la ratio della norma, sono stati spesso conferiti incarichi a funzionari già in servizio, considerati, con una buona dose di vivace immaginazione, esterni. Insomma, l’inconfessata voglia di buona parte della politica di assicurarsi dei fideles nel proprio cortile non ha certo giovato ad una macchina pubblica già piena di problemi e rischia di togliere ruolo e dignità alle professionalità che, invece, erano e sono state immesse nella PA correttamente e con profitto. Se questo è il quadro, occorre allora interrogarsi su quale fosse lo straordinario caso di necessità ed urgenza che la Costituzione prescrive per l’emanazione di un decreto legge (articolo 77 Cost.) che ha indotto il Governo ad inserire, allo scoccare del 2020, l’innalzamento della famigerata percentuale nel milleproroghe. Si tratta, come ha denunciato UNADIS, l’Unione Nazionale dei dirigenti dello Stato, di una norma ad personam? Il solito, pantagruelico appetito di chi non resiste alla tentazione di entrare, sgomitando, nella gestione di enti e ministeri? O, come si potrebbe maliziosamente supporre, è un cavallo di Troia da presentare in aula nel corso del dibattito parlamentare di conversione del decreto per scardinare definitivamente le salvaguardie dell’istituto? Sia quel che sia, prevale l’amarezza della perdurante miopia di chi non può, non riesce o non vuole guardar lontano e, magari, ripensare e riformulare in radice la questione. Come? Ad esempio prevedendo, nel rimetter mano al corso-concorso per dirigenti della Scuola Nazionale di Amministrazione (SNA), un filone di entrata specificamente dedicato a professionalità del mercato privato che intendano mettersi a servizio della cosa pubblica, accanto ad analoghe porte di entrata per i neo laureati e per chi già lavori in una pubblica amministrazione. Lo fa l’Ecole Nationale d’Administration (ENA) che, a fronte delle trasformazioni annunciate e volute da Emmanuel Macron, ha avuto e continua ad avere il merito di mettere assieme, a mo’ di percorso di accademia, individui di provenienza diversa ma accomunati dai valori repubblicani. Avere una visione che trascenda gli appetiti e le prebende del momento, insomma, invece di giocherellare coi numeri: ne siamo capaci?
4 Gennaio 2020