Politica e biopoliticaLe guerre persiane

Giugno 2008. L’Economist pubblica una copertina surreale con un liutaio che ripara uno strumento a corde e accanto il titolo: Iraq starts to fix itself. L’Iraq comincia ad assestarsi. Invece di ved...

Giugno 2008. L’Economist pubblica una copertina surreale con un liutaio che ripara uno strumento a corde e accanto il titolo: Iraq starts to fix itself. L’Iraq comincia ad assestarsi. Invece di vedere e prevedere la crisi finanziaria che di lì a pochi mesi avrebbe devastato le economie occidentali – i cui effetti perdurano a tutt’oggi – la principale voce della tecnocrazia cosmopolita si avventura in una previsione di politica estera, in qualche modo promuovendo, a pochi mesi dalle elezioni presidenziali americane, il lavoro di “esportazione della democrazia” avviato dall’Amministrazione Bush junior con la guerra contro Saddam Hussein e l’occupazione dell’Iraq.

Quel titolo, formulato a cinque anni dallo scoppio della guerra – nella sua fase campale durata solo pochi mesi – oggi appare una grottesca presa in giro. L’Iraq, pure occupato dai soldati americani è l’ennesimo “stato fallito” dove nessuno ha il monopolio dell’uso legittimo della forza ma si susseguono attentati in una cornice di permanente instabilità. Per non dire del carattere traballante dell’unità nazionale, con territori come quello del Kurdistan iracheno, sostanzialmente, se non formalmente, indipendenti. Ma non solo, lo sforzo bellico ed economico americano è di fatto servito a permettere una espansione dell’influenza regionale dell’Iran grazie alla comunanza di confessione sciita tra la Repubblica Islamica e oltre il 50% degli abitanti dell’Iraq. Mutatis mutandis è come se gli angloamericani dopo aver combattuto per abbattere il nazifascismo in Italia si fossero ritrovati una repubblica italiana popolare e filosovietica.

Difficile trovare un caso di scuola più palese di questo in cui a una vittoria sul piano militare segue una sconfitta sul piano della politica. Sconfitta che perdura e anzi si acutizza negli otto anni di Obama con un paese dilaniato dalla pressione dell’Iran sciita da una parte e da quella dello Stato Islamico sunnita nato nel frattempo, dall’altra. Di qui l’iniziativa di venire a patti con il regime iraniano sulla tecnologia nucleare. Una politica di appeasement che ha allontanato la fase acuta ma non ha eliminato il vero nodo geopolitico, una questione che sta in piedi da 2500 anni, a prescindere dalle religioni, dalle confessioni, dalle ideologie, dalle dinastie: la Persia vuole uno sbocco sul Mediterraneo.

Il paradosso è che sarebbe stato proprio l’intervento americano del piccolo Bush a creare le condizioni per la realizzazione di questo “sogno”. Eliminando l’Iraq a guida sunnita si è eliminato infatti l’ostacolo frapposto tra Iran e Siria alawita, alleata più che trentennale degli Ayatollah, ovvero tra Iran e Mar Mediterraneo. Se non si parte da questo contesto, se non si fa un po di analisi realista, non si capisce la ratio dell’eliminazione di Qassam Soleimanì che in Europa è stata, a torto, letta come la scintilla di una possibile escalation stile Sarajevo, ma che invece è stata un atto di deterrenza dentro una guerra già in corso sebbene non dichiarata: la guerra per un nuovo equilibrio del Medio Oriente, una guerra per l’egemonia.

Chiarite le premesse possiamo allora passare a domandarci se l’eliminazione di Soleimani sia stato un gesto in violazione del diritto internazionale, un atto illegale compiuto da parte degli USA oppure no. Per molti commentatori italiani ed europei la risposta immediata è stata convulsamente affermativa. Ora però, a più di 15 giorni di distanza, dopo una rappresaglia ridicola e telefonata da parte dell’Iran, dopo la brutta figura dell’abbattimento per errore dell’aereo ucraino e dopo le prime manifestazioni di piazza degli studenti, segno della fragilità del regime iraniano, bisogna concludere che quella risposta affermativa non era la risposta esatta. E che qui in Europa non si è prestato adeguato ascolto a quanto espresso dal capo del Pentagono, Mark Esper, chiamato in causa per le voci sulla smobilitazione degli americani: “non andiamo via da Baghdad, non vogliamo iniziare la guerra ma siamo pronti a finirla”.

Ecco, appunto. Concludere la guerra questo sembra essere l’obbiettivo dell’amministrazione Trump, concludere una guerra che è stata ereditata e che non non è stata iniziata da questa amministrazione, ma concluderla con una pax americana non con una ritirata, che lascerebbe peraltro la regione in uno stato di permanente e perdurante instabilità. Del resto che l’Iran fosse già in guerra non deve sfuggire a nessuno così come il fatto che l’eliminazione di Soleimani non è stata la prima volta di un ufficiale iraniano ucciso mentre operava in un paese estero con funzioni prettamente militari; nel solo 2015, in Siria l’Iran perse a gennaio Mohammad Ali Allah-Dadi e sopratutto in ottobre il comandante Hossein Hamedani, capo dei volontari iraniani in Siria, un quasi omologo, oltre che sosia, di Soleimanì. A questo proposito può essere utile riportare come l’impegno militare iraniano in Siria è stato quantificato in un costo di diversi miliardi di dollari e ad oggi conta oltre 2000 volontari caduti in guerra.

Tutti elementi questi che fanno fatica a entrare nel dibattito e nell’analisi italiana ed europea. Certo, condizionare l’uso della forza alla forza del diritto sarebbe l’ideale per molti e sopratutto sarebbe la mission per una istituzione come le Nazioni Unite. Ma sul piano effettuale tutti i tentativi di costruire un monopolio internazionale dell’uso legittimo della forza hanno fallito. Si pensi all’attuale situazione della Libia, un paese consegnato alla guerra civile e all’instabilità da ripetute risoluzioni delle Nazioni Unite. Stato fallito la Libia per effetto di decisioni prese dall’ONU, stato fallito l’Iraq per decisioni prese dal piccolo Bush. Dunque che fare?

Sperimentato e sconfitto il pensiero universalizzante dell’”esportazione della democrazia” come anche quello per molti versi simile, inaugurato da Obama con la politica della “mano tesa” e il discorso del Cairo, che diede la stura alle “primavere arabe”, a Trump restavano due opzioni: il realismo o il velleitarismo, imprimere una svolta con gesti concreti o continuare ad abbaiare con il rischio di perdere progressivamente credibilità come accaduto ai suoi predecessori. Si è assunto il rischio e ha scelto il realismo. Ha scelto di voler limitare l’espansione iraniana nel Medioriente e di riconquistarsi l’Iraq. Lo ha scelto non consultando nessuno degli alleati, a cominciare dagli israeliani, facendo capire che non ci sono coalizioni, visto che le coalizioni pur vittoriose in battaglia si sono sciolte al primo nodo politico.

A torto o a ragione questa storia ci dice che ci sono solo gli USA come garanti di un nuovo equilibrio possibile in Medioriente. Anche l’eliminazione di Al Baghdadi e l’abbandono dei curdi siriani si spiegano in questa logica. Sul piano geopolitico la Turchia è nel lungo periodo un avversario strategico dell’Iran, non può tollerare infatti un vicino così potente con lo sbocco sul Mediterraneo: meglio sostituire l’esercito turco con l’esercito curdo nel controllo del Nord della Siria in modo tale da mettere Assad e Iran di fronte a un vicino potente. Addio multipolarismo! gli USA si pongono al centro di una serie di privilegiate relazioni bilaterali. Un sistema delle relazioni internazionali a stella – o a “stelle e strisce” verrebbe da chiosare in battuta – pienamente coerente con il mandato ricevuto dagli elettori americani e con il programma elettorale.

Possiamo quindi concludere che l’eliminazione di Soleimani sia stato un atto di deterrenza, un avvertimento dentro una guerra già in corso, finalizzato alla chiusura di un conflitto non alla sua escalation. Volendo fare un parallelismo, si parva licet, lo si potrebbe fare con il lancio della bomba atomica per costringere il Giappone alla resa nella Seconda Guerra mondiale. Anche in questo caso c’è una manifestazione di superiorità tecnologica e l’obbiettivo di terminare un imperialismo regionale, fino al la resa degli Ayatollah e forse un vero e proprio regime change.

Insomma il messaggio politico dell’eliminazione del capo dei pasdaran potrebbe essere così riassunto: “cari Ayatollah, premesso che siamo in conflitto, non faccio finta di stare in pace con voi, noi americani abbiamo la tecnologia per eliminarvi uno ad uno senza fare stragi, senza scatenare una guerra su vasta scala, senza colpire civili. Piantatela quindi di usare l’Iraq come il cortile di casa. Ritiratevi”.

Indebolire fino a sconfiggere la classe dirigente iraniana con operazioni come quella di Soleimani, far capire che la sopravvivenza di ciascun singolo dirigente iraniano è in mano agli USA per demolire pezzo a pezzo, il regime degli Ayatollah e avviare un processo di trasformazione politico istituzionale, e con queste premesse ricostruire l’Iraq: ecco il disegno dietro l’eliminazione del generale dei Pasdaran. Altro che assenza di strategia come abbiamo cianciato in Europa. Riuscire ad espellere gli iraniani dall’Iraq sarebbe una sconfitta plateale per la Repubblica islamica. E, come insegna l’Argentina dei Colonnelli, ad una sconfitta militare, in quel caso le Falklands, potrebbe seguire un cedimento strutturale di tutto il regime.

Di fronte a tutto questo che è certamente espressione di politica di potenza, l’Unione europea continua a far finta di niente, a crogiolarsi in un facile quanto ipocrita conformismo antitrumpiano, insomma a guardarsi l’ombelico mentre tutto il mondo è in fermento. Imbambolata ancora dalla narrazione tecnocratica delle “magnifiche sorti e progressive” la stessa che faceva scrivere all’Economist le false previsioni sull’Iraq, l’Unione europea si conferma l’unico posto al mondo dove la tecnocrazia ha sostituito in tutto e per tutto la politica. Per questo la storia non l’assolverà.

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