Di: Leonardo Stiz
L’ambiente è l’hot topic dei decenni che verranno, e sul Green Deal europeo i riflettori sono accesi già da prima che la nuova Commissione si insediasse formalmente. È il super progetto verde all’apice delle priorità politiche del team guidato da Ursula Von Der Leyen, ed è estremamente complesso e ambizioso. Si farebbe però un errore ad associarlo soltanto agli scioperi per il clima e alla retorica sul futuro rubato. Dietro a un nome che suona come il New Deal americano degli anni 30, si raggruppa infatti una varietà di misure intese a incidere su ambiti e settori diversi, a volte rivoluzionandoli, con un comune obiettivo: rendere l’Unione europea un continente carbon-neutral entro il 2050. E le implicazioni più o meno nascoste sono enormi, specie per i lavoratori, soprattutto giovani.
Carbon neutrality in questo caso significa che l’intera Unione europea emetterà una quantità di CO2 non più alta di quella che riesce ad assorbire. In altre parole, il saldo dell’impatto ambientale da emissioni di CO2 sarà pari a zero. Un tale obiettivo si raggiunge con una riduzione delle emissioni di circa l’80%. Un numero enorme, soprattutto se rapportato a un periodo di 30 anni, che richiederà una vera e propria rivoluzione industriale, stravolgimenti di interi settori dell’economia che fanno affidamento sui combustibili fossili.
E allora la parola d’ordine è “leave no one behind”, che in realtà è la condizione imprescindibile per il successo del Green Deal. La transizione verso un’economia più verde necessita della riqualificazione di intere aree industriali, se non dell’economia di interi Stati membri (l’energia polacca, ad esempio, è prodotta per l’80% da combustibili fossili). La riduzione delle emissioni implica, tra le tante cose, rendere i combustibili fossili più marginali rispetto alle energie rinnovabili (con enormi trasformazioni in settori come la siderurgia e la metallurgia), implica il ricorso all’economia circolare, investimenti massivi in nuove tecnologie. È verosimile che il Green Deal accelererà il processo di creazione di nuove tipologie di lavori a fronte dell’automatizzazione o dell’eliminazione di forme di impiego attuali. Tutto ciò prospetta la ricollocazione di un numero enorme di lavoratori, richiede formazione, educazione digitale e tecnologica, visione, pianificazione degli investimenti e sinergie, sia da parte delle pubbliche amministrazioni che delle imprese. E richiede tanti, tantissimi soldi. In altre parole, il Green Deal è (anche) una sfida sociale, che avrà veramente successo se i circa 500 milioni di cittadini europei riusciranno a mantenere lo stesso tenore di vita.
È questo l’obiettivo del Just Transition Mechanism, un piano di investimenti da circa 100 miliardi di euro (tra risorse UE, risorse nazionali e prestiti della Bei) per sostenere la transizione e assistere le regioni europee più esposte alle ricadute economiche e sociali. Il meccanismo ha un’architettura piuttosto complessa e mira a influenzare politiche riguardanti diversi ambiti socio economici, inclusi i giovani. Già, perché si stima che solo nei prossimi 5 anni la metà dell’attuale forza lavoro dovrà aggiornare le proprie competenze per rimanere al passo con la domanda e, a maggior ragione, la formazione dei giovani deve adeguarsi affinché abbiano gli strumenti per inserirsi in un mercato che crea sempre più nuovi profili professionali.
Questa transizione però, quella dell’educazione e delle competenze adatte, procede con più lentezza. Il divario tra scuola e mondo del lavoro è ancora ampio e l’alfabetizzazione digitale e tecnologica dei giovani è bassa. In Europa ci sono circa un milione di vacancies nei settori tecnologici che non si riescono a riempire. Senza dimenticare che il peso dei debiti pubblici inizia, in misure diverse a seconda del paese, a farsi sentire sul welfare, sulle pensioni e sulla pressione fiscale, a scapito di chi ha ancora tutta la vita lavorativa davanti. Non è un caso se i giovani sono, oggi, la generazione maggiormente esposta al rischio di povertà.
Il meccanismo annunciato dalla Commissione europea per far sì che la transizione verde sia anche equa, tra tutte le misure previste, richiederà quindi anche l’adeguamento dei sistemi scolastici e universitari nazionali e delle opportunità di formazione sul lavoro. Prima ancora, tuttavia, bisogna identificare le nuove competenze che andranno apprese, e per far ciò non c’è alternativa al dialogo costruttivo tra tutte le realtà interessate: giovani, scuola, università, imprese, pubblica amministrazione. La Commissione interverrà con un quadro europeo delle competenze connesse al Green Deal e con una revisione della Youth Guarantee, uno strumento di garanzia contro la disoccupazione giovanile che in Europa, dal 2013 al 2017, ha supportato con successo 2,4 milioni di giovani.
Da ciò dipende anche il futuro del sistema produttivo, dal momento che le piccole e medie imprese, spina dorsale dell’economia europea, avranno più difficoltà e meno risorse per adattarsi alle sfide della transizione verde. Il capitale umano che le guiderà nei prossimi trent’anni dovrà vincere questa sfida, e dunque dovrà essere ben preparato a farle evolvere e a cogliere le opportunità affinché nella trasformazione non scompaiano.