Ipse DixitAbruzzo si, folclore no. Setak.

Ho conosciuto Nicola nell’ottobre dello scorso anno a Cagliari. Era tra i dieci finalisti del XII° Premio Andrea Parodi, il più importante contest nazionale di world music. Scelto insieme ad altr...

Ho conosciuto Nicola nell’ottobre dello scorso anno a Cagliari. Era tra i dieci finalisti del XII° Premio Andrea Parodi, il più importante contest nazionale di world music.

Scelto insieme ad altri nove colleghi tra centinaia di candidature giunte alla direttrice artistica del Premio, Elena Ledda, lo vidi salire in scena nel corso della prima serata e subito mi piacque.

Il Premio Parodi si articola solitamente su tre serate; la prima sera gli artisti si presentano e rompono il ghiaccio, la seconda sera interpretano a modo loro un brano del repertorio di Andrea Parodi e nella serata finale si contendono i diversi riconoscimenti assegnati dalle due giurie, in diretta Rai Radio Tutta Italiana.

Stava bene sul palco insieme ai suoi musicisti, disinvolto ma non troppo baldanzoso. Ed un tantino emozionato.

Appena arrivati da ogni parte del mondo, con un solo soundcheck alle spalle, davanti ad una platea attenta ed osservati dalle due giurie (la Giuria Tecnica composta da addetti ai lavori, autori, musicisti, poeti, scrittori e cantautori e la Giuria Critica composta da giornalisti) non è semplice per loro rompere il ghiaccio.

Ben sapendolo, come componente della Giuria Critica, la mia valutazione delle esibizioni della prima serata non è mai troppo severa; ascolto, guardo e mi lascio trasportare dalle prime impressioni spontanee.

Questo ragazzo, Setak, come detto mi piacque subito; bello il suo sound e piacevole la sua presenza scenica. Stava bene sul palco insieme ai suoi musicisti, disinvolto ma non troppo baldanzoso. Ed un tantino emozionato.

Ai dieci artisti in gara venne abbinato un giornalista, incaricato di porgere loro una domanda a sorpresa prima di ogni interpretazione. Caso vuole che mi toccò proprio quel tale giovane Setak from Abruzzo. (Thanks Roberta Scorranese, bellissima firma del Corriere della Sera, perché senza il tuo libro e senza di te sarei stato in difficoltà a parlare di Abruzzo).

Ora a distanza di qualche mese mi faccio con Nicola Pomponi, in arte Setak, una bella chiacchierata che vi propongo.

Dalle mie parti in Abruzzo le famiglie spesso vengono identificate con i loro soprannomi storici, che talvolta sono molto antichi.

Perché il nome d’arte Setak?

Setak deriva dal soprannome di famiglia. Dalle mie parti in Abruzzo le famiglie spesso vengono identificate con i loro soprannomi storici, che talvolta sono molto antichi. I miei antenati costruivano i setacci, gli strumenti utilizzati per filtrare la farina. Quindi io sono “lu setacciar”, sono Setak.

Forza Nicola, presentati.

Sono Nicola Pomponi, un chitarrista-cantautore che ad un certo punto della propria vita, dopo tanto suonare dal vivo, ha deciso di pubblicare un disco.

Sono nato (e cresciuto) a Penne, in provincia di Pescara, nel giugno del 1985. Nel 2001 mi sono trasferito a Roma, non per suonare ma per giocare a tennis. Suono da quanto avevo sei anni, ho cominciato a suonare insieme a mio fratello Nazareno, eravamo i MaNiNa (Marco, Nicola e Nazareno) e suonavamo come dei matti senza sosta.

A dieci-undici anni ho scoperto il tennis e per qualche tempo ho alternato la racchetta alla chitarra. Con il passare del tempo il tennis stava diventando una professione, ma alcuni problemini hanno bloccato la mia carriera sportiva. Sono rimasto comunque a vivere a Roma, facendo il pendolare con Pescara dove mi ero iscritto all’Università. Roma mi permetteva di affacciarmi al mondo della musica ed alle soglie della maggiore età ho cominciato a navigare nel grande mare del circuito musicale romano.

Bene. Ma prima di parlarmi della storia musicale di Setak tu mi devi dire chi è Nicola.

Dicono che sono una persona molto simpatica ed un pochino rompiscatole. La mia vita è totalmente up&down, viaggio spesso tra la depressione e la totale euforia. Non sono bipolare, però certamente non vivo una vita monotona. Penso di essere una persona affidabile, anzi sono certo di essere una persona molto affidabile.

Hai una compagna?

Si, sono fidanzato con Margot.

Chiediamo a lei se sei davvero molto affidabile?

Ahahah… si, si, stai tranquillo, ora non c’è ma sono certo che te lo confermerebbe. La sua fiducia me la sono conquistata sul campo; quando ci siamo conosciuti mi vedeva come il classico artista scapestrato senza i piedi per terra, poi ho saputo guadagnarmi la sua fiducia.

Andiamo avanti; via la racchetta e riprendi la chitarra. Chi ti ha insegnato a suonarla?

Sono un autodidatta…

Un altro! Questa cosa dell’autodidatta me l’aveva già detta Simone Cristicchi raccontandomi la sua giovinezza. Ed io rosicavo, non avendo mai superato in gioventù la soglia del giro di Do come autodidatta, nonostante cento corde rotte e tante ore buttate via. Adesso anche tu con questa storia dell’autodidatta.

Io in realtà un grande maestro l’ho avuto, anche lui cresciuto da autodidatta. Vincenzo Tartaglia, una persona a cui sono legatissimo. Vincenzo ha suonato in tante orchestre in giro per il mondo, facendo una vita da zingaro.

Ho studiato molto la chitarra, ma non sugli spartiti. Ho passato ore a suonare, ho spaccato i dischi a furia di rimetterli su cercando di copiare i suoni che sentivo. Al paese non è che ci fossero le accademie o le scuole di musica, rispetto a Roma eravamo quindici anni indietro. Io ho suonato i vinili di mio padre senza sosta, li ho sentiti ed imitati tante di quelle volte che alla fine glieli ho rovinati tutti.

Musicalmente rubavo tutto ciò che sentivo, ed ancora oggi lo faccio. Se mi chiedi di leggere uno spartito non so nemmeno da dove cominciare, non conosco nemmeno il nome di tutti gli accordi che uso, comunque li uso. Dopo tanto suonare forse non riconosco ancora bene le note su uno spartito, però ad orecchio riconosco tutti i suoni e so riprodurli. Riguardo la teoria musicale mi dichiaro deboluccio, ma a livello di creatività mi sento a mio agio, mi sento libero.

Evidentemente il risultato è comunque positivo, viste le collaborazioni importanti che hai avuto in questi anni.

Si, certamente. Ho suonato con Donatella Rettore, con Mimmo Locasciulli, con Noemi, con Fiorella Mannoia. Ad esempio nel caso della mia collaborazione con Fiorella Mannoia non è stato necessario seguire uno spartito prefissato.Lei ha lasciato che arrangiassi il suo pezzo insieme al mio produttore (Fabrizio Cesare) e che mi muovessi liberamente all’interno del brano secondo il mio stile. Spero sempre che un artista mi chiami non perché ha bisogno di un chitarrista, ma perché gli piace il mio modo di interpretare la musica e questo comporta il fatto che mi debba lasciare una certa libertà creativa.

Se mi cerchi per interpretare meccanicamente uno spartito con la chitarra, forse è meglio che chiami qualcun altro. Se invece cerchi me ed il mio suono tutto è diverso, ma in questo caso devi lasciarmi lo spazio per muovermi.

Quando suonai con Noemi venne il suo direttore d’orchestra a consegnarmi lo spartito: gli dissi “lascia perdere, fammi un favore cantami al volo la canzone, poi ci penso io…”. Sono fatto così.

La musica è un fenomeno collettivo, di gruppo

Subito dopo la chiusura del Premio Parodi 2019 io scrissi che il riconoscimento per la migliore interpretazione di un brano di Andrea Parodi era andato a “i Setak”, togliendoti il ruolo di interprete unico e apparentandoti agli amici musicisti che ti accompagnavano. Uccisi un solista ed inventai un gruppo. Sappi che lo stesso errore lo ha fatto anche la SIAE in una sua pubblicazione istituzionale. Evidentemente il feeling che c’è tra di voi sul palco ci ha fregati.

Hai lanciato una moda! Quando ho letto questo tuo “i Setak” sono stato felicissimo perché per me è un onore essere avvicinato ai miei compagni di avventura. La musica è un fenomeno collettivo, di gruppo, ed io amo lo spirito musicale delle band. Io penso di essere un musicista da band più che un interprete solista, il profilo stereotipato del cantautore solitario voce e chitarra non mi appartiene.

I ragazzi che hai visto tu sul palco di Cagliari sono persone con cui suono da vent’anni; Nazareno Pomponi (mio fratello con cui suono dalla nascita), Valerio Pompei alla batteria, Fabrizio Cesare (produttore, basso e tastiere) e Luca Guidi alla chitarra.

Ogni artista ha un teatro, una piazza, un auditorium, un locale dove si sente davvero a casa propria. Casa Base. Qual è il luogo che consideri davvero la tua Casa Base?

Il mio posto magico è “Il Tibo” e si trova a Penne, il mio paese. E’ una libreria-caffè che hanno aperto due miei amici, meravigliosi e coraggiosissimi. Si tratta di un caffè letterario dove vengono presentati libri, eventi culturali e dove si tengono concerti. Quando posso ci vado, laggiù mi sento davvero a casa.

Tu canti in dialetto abruzzese, la tua lingua madre. Come vengono ascoltate le tue canzoni in Abruzzo e come invece in tutto il resto dell’Italia?

Dalle mie parti ho ricevuto un’accoglienza veramente imbarazzante.

Ti hanno tirato le pietre…

Ma no, anzi! Ho ricevuto un’accoglienza meravigliosa, evidentemente la mia musica e l’uso che ho fatto della mia lingua madre hanno colpito nel segno.

Ci sono delle parole e delle espressioni che un abruzzese capisce al volo e che sono molto complicate da tradurre in italiano; è logico che l’effetto che producono è differente a seconda di chi le ascolta.

Una delle grandi forze dei dialetti sta nel fatto che una sola parola è capace di riassumere un concetto, una storia, uno stato d’animo.

Bisogna anche dire che non esiste una vera e propria unica lingua abruzzese, perché certi termini cambiano anche drasticamente da provincia a provincia, da paese a paese. Io ho provato a riunire nei miei pezzi le diverse parlate abruzzesi, facendo uno studio e mediando tra i differenti modi di dire. Ed infatti ogni volta che suono in un posto dal vivo mi sento dire: “ma guarda che questa tal cosa non si dice così….”. Ogni volta, è un classico ormai. Comunque questa mia parziale re-invenzione della lingua normalmente viene accettata ed apprezzata. Insomma, ci capiamo.

E’ una lingua semplice da scrivere e musicare?

E’ una lingua veramente difficile; è difficilissimo utilizzarla perché è tagliata proprio con l’accetta. Non ci sono i verbi al futuro, tutte le parole sono mozzate, non hanno una coda. Ti assicuro che è una lingua davvero difficile. Qualche volta mi sono sentito dire “che bel pezzo…poi l’abruzzese è un dialetto davvero musicale…”. Sapessi quante volte mi sono mozzicato la lingua per non rispondere male, sapessi quanto lavoro c’è dietro alla composizione di ogni testo.

Ti faccio uno spoiler. Venti minuti fa abbiamo chiuso un brano in collaborazione con Francesco Di Bella, l’ex cantante dei 24 Grana; lui è un cantante napoletano ed io ho voluto utilizzare la sua lingua. Ma è stata una passeggiata, il napoletano è molto più semplice da utilizzare, molto più duttile, molto più musicale. Insomma non è l’abruzzese.

Non temi di rimanere ingabbiato a vita nel cliché del cantante dialettale?

Il fatto di avere un’appartenenza artistica certa e riconosciuta mi fa piacere. Ma non ho intenzione di vivere una carriera da cantante dialettale. Io scrivo canzoni. Canzoni che chiunque potrebbe cantare, anche un americano, canzoni che si possono prestare ad essere tradotte in un’altra qualsiasi lingua. Senso di appartenenza si, campanilismo e folclore, grazie no.

La mia non è musica abruzzese, la mia musica è internazionale anche se io utilizzo l’abruzzese per i testi. Essere apprezzato in Abruzzo mi fa certamente piacere, ma il piacere è doppio quando riscuoto il consenso in altre regioni o fuori dall’Italia, perché significa che la mia musica ha centrato il bersaglio, anche se il testo non è stato capito in parte o in toto.

La gente mi dice “bello questo pezzo, ora vado a vedere cosa dice il testo”. Intanto la mia musica li ha toccati. Chissà perché se ascoltiamo un pezzo in inglese abbiamo il diritto di non capirlo e se lo ascoltiamo in abruzzese invece no. ”Potresti tradurlo…”. Questa cosa mi fa sbroccare.

Questa mattina una radio di Modena mi ha inserito nella sua playlist ideale, insieme ai Green Day, Paul Simon ed Ivan Graziani. E non certo perché a Modena spopola l’idioma abruzzese; è la musica che apre le porte, ovunque.

L’ho provata e riprovata e riprovata ancora

A Cagliari al Premio Parodi hai ottenuto il riconoscimento per la migliore riesposizione di un brano originale di Andrea Parodi. Hai suonato Pandela, che è un pezzo impegnativo sotto diversi aspetti. Quel riconoscimento ha un peso specifico notevole ed ottenerlo significa “avere fatto breccia”. Sensazioni?

Quella bellissima canzone l’ho capita a fondo solo dopo molto tempo rispetto a quando l’abbiamo realizzata. Io e Fabrizio ci siamo messi al lavoro ed abbiamo cercato di portarla verso il nostro stile interpretativo, provando ad estrarre l’essenza del pezzo e staccando quanti più collegamenti possibile. Farne una banale cover ci avrebbe portati al naufragio, l’originale ci avrebbe sempre ridotto in briciole musicalmente parlando. Il testo poi mi toccava parecchio e questo mi ha aiutato molto a realizzare una versione che ha incontrato il favore di chi mi ascoltava. L’ho provata e riprovata e riprovata ancora, ed ogni volta diventava sempre più mia. Valentina Casalena Parodi ed Elena Ledda ci hanno consigliato di inserirla anche nelle nostre proposte live e questa è una cosa che mi lusinga molto.

Blusanza.

Blusanza è il mio disco, Blusanza è una personale tempesta emotiva, un lavoro che è riuscito a stendermi al tappeto ma anche a farmi riappacificare interiormente con il mio passato.

Io sono cresciuto mangiando pane e dischi americani o inglesi; Bob Dylan, Ray Cooder, Eric Clapton, Paul Mc Cartney, Led Zeppelin. E sono cresciuto rosicando e chiedendomi perché mai non fossi nato in Inghilterra o in America. Nei paesi ancora più che nelle grandi città si tende a pensare che gli altri siano sempre i migliori, che all’estero si può fare tutto e da noi no.

Questo disco mi ha aiutato a trovare la mia personale quadratura del cerchio, mi ha messo al posto giusto nel momento giusto, senza più rosicare. E’ una sensazione che auguro a tutti di provare nella vita. Ho messo sul tavolo da gioco la mia creatività, tutto quello che avevo dentro, ed anche quel pizzico di coraggio ed incoscienza che sino ad oggi non avevo ancora tirato fuori del tutto. Se avessimo voluto realizzare un prodotto puramente commerciale non ci saremmo messi a scriverlo in dialetto abruzzese, invece io e Fabrizio abbiamo detto “facciamo qualcosa che piace a noi, se poi piacerà anche ad altri, tanto meglio!”.

 https://www.youtube.com/embed/PF1yyg20TUs/?rel=0&enablejsapi=1&autoplay=0&hl=it-IT 

Il pezzo che ti emoziona di più.

Sono stati tutti emozionanti da realizzare, ma quello che sento più congeniale è Dumane ha ‘ggià ‘rrivate. Non voglio sembrarti presuntuoso ma in questo album la canzone brutto anatroccolo non c’è.

Come mai allora ti sei giocato Marije come brano principale al Parodi?

Perché era la prima canzone che abbiamo terminato, incisa e prodotta anche con un video. Io non stavo più nella pelle, fremevo dalla voglia di far sentire questa mia musica, non riuscivo più ad aspettare che l’intero album fosse compiuto. E la canzone mi ha aiutato, perché ha iniziato a camminare da sola, ha iniziato a piacere a tutti coloro che la ascoltavano, compresa la direzione artistica del Premio Parodi che ha scelto proprio questa traccia per farmi partecipare al contest.

Il Premio Parodi anno dopo anno è, a mio avviso, sempre meno contest e sempre più laboratorio di idee e musica di qualità. Che impressione ti ha fatto visto da dietro le quinte?

E’ stata un’esperienza bellissima, anche se la competizione in musica è una cosa che proprio non sopporto. Non mi sento uno sgomitatore e l’ambizione che ti spinge ad essere il vincitore assoluto proprio non la sento.

Quando sono arrivato a Cagliari mi sono accorto subito che il livello artistico e tecnico dei partecipanti era altissimo, veramente altissimo. Ed ho pensato: “mamma mia, ma questi sono dei mostri…”. E’ stata un’esperienza intensa e stancante, ma molto bella. L’atmosfera che si è creata tra tutti gli artisti, il rapporto che si è creato nei tre giorni con voi delle giuria, il vivere h 24 uno di fianco all’altro con musicisti, giornalisti, autori di livello internazionale arricchisce molto.

attivate questo link per ascoltare Marije – da Blusanza

https://youtu.be/hamlGq67YYg

La competizione canora non ti piace quindi non hai seguito il Festival di Sanremo.

Invece stavolta qualcosa l’ho visto. Ho visto la prima puntata per intero, non era mai accaduto prima; ed ho anche fatto un repost sui miei social del bellissimo discorso di Rula Jebreal. Non ho trovato molto di interessante (a parte Tosca) ma qualcosa di buono c’è anche li.

Ci andresti se ti invitassero?

Certamente, se mi facessero suonare quello che ritengo giusto suonare. Se invece mi trovassi davanti ad un percorso pilotato del tipo “ vieni, ma con una canzona fatta apposta per…” forse declinerei l’invito. Sanremo ha una visibilità enorme, se ti lasciano suonare quello che vuoi rifiutare sarebbe una sciocchezza.

O sei ricco oppure per suonare devi lavorare, lavorare, lavorare.

Ho letto che per coprire i costi di produzione di Blusanza hai fatto un crowdfunding, ovvero una raccolta fondi pubblica.

La musica, in particolare quella non prettamente commerciale, è una cosa per ricchi. La scena romana, quella che conosco meglio, mi insegna che non sono molti gli artisti affermati che hanno iniziato con la spada di Damocle della bolletta da pagare, dell’affitto e della spesa al supermercato. Io ricco non sono e quindi mi sono dovuto confrontare con la necessità di auto produrre la mia musica, sia pure con costi davvero ridotti all’osso.

Una produzione prevede la stampa del disco, un ufficio stampa, spostamenti e soggiorni vari, sale di incisione eccetera eccetera, insomma servono dei capitali non banali anche se approcci ogni passo con l’attenzione di un farmacista.

All’apertura del crowdfunding, curato in modo ineccipibile da Antonio Stroveglia (che non smetterò mai di ringraziare), le risposte positive sono arrivate oltre ogni mia più rosea aspettativa, l’affetto verso di me è stato pazzesco. Non pensavo che ci fosse tanta gente pronta a seguirmi nella realizzazione del mio progetto; tutto è andato benissimo. I ragazzi che gestivano la raccolta tramite un sito internet mi hanno detto che ho stabilito un vero record di contributi. Non stiamo parlando di cifre iperboliche sia chiaro, il giusto per sostenere le spese del disco, in dieci giorni il capitale era tutto speso. Però in cambio io avevo Blusanza.

A meno che tu non sia un ragazzino che fa la trap, mette un video su YouTube e si fa in pochi giorni cinquanta milioni di visualizzazioni, la musica (specie quella di qualità, di nicchia come diceva Cristicchi anni fa) costa e non rende a breve termine. O sei ricco oppure per suonare devi lavorare, lavorare, lavorare.

Vivi a Roma, zona Auditorium, ad un passo dal Tevere. Che ne pensi della Capitale?

Roma è una città particolarissima, ti regala tanto e tanto ti toglie. Roma mi ha sempre voluto bene, mi vuole bene ancora, sempre. Il suo abbraccio l’ho sentito subito, appena ci ho messo piede per la prima volta. Roma ha un umore tutto suo, positivo anche se incasinato. Alla fine è un grande paese, un bellissimo paesone.

Adesso ti faccio vedere un meme che va per la maggiore di questi tempi.

Ti piace vivere in un paese che sistematicamente si inventa la figura negativa di riferimento, il bau bau, il nemico virtuale? Fino a poco tempo fa tutti gli arabi con lo zainetto erano infiltrati dell’Isis ed oggi tutti coloro che hanno gli occhi a mandorla sono untori stile Promessi Sposi.

L’unica cosa che possiamo fare per non cadere nel luogo comune è parlare poco e fare molto. La prima cosa che ho fatto quando è iniziata la psicosi cinese è stato andare a mangiare al ristorante cinese.

Viviamo in Paese che ha forti problemi di equilibrio. Ho appena scritto una canzone su questa nostra brutta abitudine di dovere sempre trovare un capro espiatorio sul quale riversare le nostre lamentele, appena sarà pronta te la manderò in anteprima.Con il dialogo ed anche con la musica dovremmo confrontarci sempre, ma non con “loro” ma tra di noi, perché grazie al cielo non tutti in Italia si lasciano convincere dal sentito dire.

Progetti ed impegni futuri?

Tante date in giro per l’Italia. Io amo suonare dal vivo ed appena posso mi muovo su e giù per la penisola. Rieti, Chieti, L’Aquila, Roma e via andare. E poi un concerto con Mimmo Locasciulli. E poi il secondo album che dovrebbe arrivare ad aprile. Incrociamo le dita.

In bocca al lupo “i Setak”. Avanti tutta e buona vita.

immagine di copertina credit photo Gianfilippo Masserano

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