“Liliana Segre non la sopporto. E anche voi, ragazzi, non vi fate fregare da questi personaggi che cercano solo pubblicità”: queste le parole che, a leggere i quotidiani, avrebbe pronunciato un’insegnante di inglese di una scuola media di Firenze, qualche giorno fa, ai propri alunni, i quali hanno informato i genitori che, attraverso una chat di classe, hanno deciso di protestare con la dirigenza dell’istituto. Scatterebbe, a questo punto, un procedimento di sospensione urgente dall’insegnamento, promosso dal preside della scuola media e sostenuto da una lettera firmata da ben 78 docenti dell’Istituto Comprensivo Coverciano, che “esprimono la loro totale ed estremamente indignata distanza dalle parole espresse dall’insegnante”, che avrebbe definito la senatrice Segre “persona troppo mediatica”, esprimendo solidarietà alla senatrice. Gli stessi docenti “si ritengono offesi e non ammettono alcuna giustificazione di quanto detto dalla collega”, per il cui comportamento hanno chiesto alla dirigenza che “vengano prese tutte le misure possibili per sanzionare questo tipo di intervento” in classe. Non c’è neppure da discuterne: le affermazioni della professoressa, se vere, sono da respingere in toto, non foss’altro per la loro evidente infondatezza. Dire che Liliana Segre cerchi pubblicità cozza col semplice, innegabile che fatto che, per motivazioni profonde che ella ha ben spiegato, ha aspettato decenni prima di raccontare le atrocità che lei e tanti altri esseri umani hanno subito a causa del meticoloso piano di sterminio del regime nazionalsocialista a danno delle persone di religione ebraica, oltre che di tutti coloro che ricadessero, per dirla con Hannah Arendt, nella ossessiva categoria del nemico oggettivo. Il punto, in questa vicenda, è un altro: l’insegnante fiorentina ha espresso un’opinione balzana e che ha correttamente suscitato fortissime critiche ma non ha certamente propagandato teorie negazioniste o che incitano all’odio conto gli ebrei o altri gruppi di persone. Per quanto urticanti, le parole della professoressa ricadono, evidentemente, nella libertà di opinione costituzionalmente garantita e non limitata dalle norme dell’ordinamento che mirano a sanzionare “chi diffonde in qualsiasi modo idee fondate sulla superiorità o sull’odio razziale o etnico, ovvero incita a commettere o commette atti di discriminazione per motivi razziali, etnici, nazionali o religiosi”, come recita la legge Mancino del 1993. Appare, allora, del tutto incongrua la pretesa di sospendere dall’insegnamento la docente sull’onda dell’indignazione. Esistono – e meno male – norme specifiche che si occupano del corretto comportamento del personale docente che “conforma la sua condotta al dovere costituzionale di servire la Repubblica con impegno e responsabilità” secondo una serie di obblighi e doveri per la cui violazione sono previste sanzioni correlate alla gravità del fatto compiuto. Tanto per dire, si elencano i casi in cui sia prevista la sospensione dal servizio: ad esempio per assenza ingiustificata dal servizio fino a 10 giorni o arbitrario abbandono dello stesso, o per svolgimento di altre attività lavorative durante lo stato di malattia o di infortunio o, ancora, per manifestazioni ingiuriose nei confronti dell’istituzione, tenuto conto del rispetto della libertà di pensiero e di espressione. Fattispecie gravi, per la cui recidiva è previsto un periodo più lungo di sospensione sino ad arrivare al licenziamento. Si tratta, in parole povere, dell’applicazione dell’intuitivo principio della proporzionalità della sanzione rispetto al fatto. Ebbene, appare davvero singolare che – allo stato di quanto è possibile conoscere al momento – a fronte di opinioni espresse, criticabili quanto si vuole ma non ricadenti nei casi previsti per applicare la sanzione della sospensione, si sbandieri la necessità di irrogare la medesima senza alcuna base normativa, regolamentare e di contratto collettivo. Oggettiva, persino. È un caso che, indipendentemente dal palese disaccordo con quanto esternato agli studenti, illustra con efficacia un certo sbandamento di cui è facile cader preda, calpestando diritto e buon senso. Le parole pesano, sempre: la professoressa si assume, naturalmente, la responsabilità di quanto ha detto e le critiche che ne sono seguite non possono certo sorprenderla. Ma alle parole, se e quando legittime, pur se con le stesse ci si trovi in profondo disaccordo, si ribatte con la parola. Non con la censura. E men che mai con minacce di rappresaglia campate per aria. Non ci troviamo, fortunatamente, sul set di Frankenstein dove la folla urlante, armata di torce e forconi, brama la testa della sventurata creatura. Siamo in uno Stato di diritto: faremmo bene a ricordarcelo sempre.
3 Febbraio 2020