L’intervento di Giuseppe Bedeschi su Il Foglio del primo Marzo ha fatto riaffiorare una vecchia polemica sul giovane, allora 23 enne, Antonio Gramsci e la sua presa di posizione all’indomani dello scoppio della Prima Guerra mondiale. Si tratta del noto articolo “neutralità attiva e operante” in cui Gramsci esprime una prudente apertura nei confronti di Benito Mussolini, allora direttore dell’Avanti, critico della linea della “neutralità assoluta” espressa dalla direzione del Partito Socialista.
Pur nella puntuale ricostruzione della vicenda, il senso – neppure troppo sottinteso dell’articolo de Il Foglio – è quello di voler denunciare in quelli che sono gli eredi del partito fondato da Antonio Gramsci, un certo imbarazzo, pudore, una certa vergogna a parlare di questa vicenda, fino alla conclusione non priva di banalità circa “un percorso, (quello di Gramsci ndr) certo, sempre lontano mille miglia dal socialismo riformista”. La scoperta dell’acqua calda.
Il senso di tutto l’articolo è insomma quello di screditare il giovane Gramsci per le sue contiguità intellettuali con Mussolini, e così indirettamente esaltare l’altra sinistra, quella “riformista” evocata nel finale ma senza illustrarne linea e protagonisti. Un articolo filologicamente impeccabile ma profondamente tendenzioso. Nelle righe che seguono si cercherà di mantenere la filologia ma di cambiare completamente la “tendenza”.
“Pur nella straordinaria confusione che la crisi europea ha creato nelle coscienze e nei partiti, tutti sono d’accordo su di un punto: il presente momento storico è di indicibile gravità, (…) facciamo in modo che il maggior numero possibile di questioni che il passato ha lasciato insolute venga risolto”. Così comincia la riflessione di Gramsci, una intellettualmente onestissima ammissione di difficoltà, di “confusione” ma anche la valutazione che la guerra in corso cambierà completamente la storia d’Europa, e da come le sue classi dirigenti sapranno rispondere dipenderà o meno la loro sopravvivenza o la loro estinzione. Ma c’è di più, nella definizione del problema da risolvere Gramsci pone come fondamentale e fondante una questione nazionale: “quale deve essere la funzione del Partito Socialista italiano? (si badi, e non del proletariato o del socialismo in genere) nel presente momento della vita italiana?”.
E’ una domanda che non ha, non può avere una risposta puntuale, giusta o sbagliata. Ma è il fatto già di porla che la rende, nel panorama del socialismo italiano di allora, una domanda scomoda e quindi intrisecamente rivoluzionaria. E’ una domanda che punta a stanare le contraddizioni, le debolezze intellettuali e strategiche del partito socialista: internazionalmente rivoluzionario ma nazionalmente giolittiano. Insomma per il giovane Gramsci non ha senso evocare liricamente “l’ideale nostro fine sarà: Internazionale futura umanità”, perché di fronte all’immane tragedia della guerra mondiale quello che conta è riconoscere la gravita dell’”ora presente”, essere concreti, fare delle scelte, e non usare l’ideale per nascondersi, non brandire parole come proletariato oppure socialismo per mettersi la coscienza a posto, senza l’onere e la responsabilità di indicare un soggetto capace di guidare e governare il processo storico di individuare un percorso.
E allora Gramsci prosegue: “non è sul concetto di neutralità che si discute, ma sul modo di questa neutralità” per questo a suo parere è necessario passare dalla linea della “neutralità assoluta” giusta nella prima fase dello scoppio del conflitto, alla “neutralità attiva e operante. Il che vuol dire -prosegue – ridare alla nazione il suo genuino e schietto carattere di lotta di classe”. Insomma, la Guerra Mondiale è la storia, proclamare “la neutralità assoluta” non solo sarebbe antinazionale perché “ad un vero sabotaggio si riduce la neutralità assoluta”, ma sarebbe una fuga dalla storia, una fuga dalle responsabilità, mentre il conflitto è una occasione straordinaria per combattere la lotta di classe.
C’è quindi in Gramsci una alterità antropologica prima che programmatica nei confronti dei “riformisti” che per lui “vorrebbero che il proletariato assistesse da spettatore imparziale agli avvenimenti, lasciando che questi gli creino la sua ora, mentre intanto gli avversari la loro ora se la creano da sé”.
Emerge qui tutto il disappunto se non proprio il disgusto per l’attendismo dei riformisti che è un dissenso profondissimo, filosofico prima ancora che politico; contrapposti ai “riformisti”, “i rivoluzionari -argomenta Gramsci- concepiscono la storia come creazione del proprio spirito”. E’ una frase che, letta oggi, senza incardinarla nella temperie culturale di quegli anni, nella ripresa della filosofia idealistica operata da Giovanni Gentile e Benendetto Croce, non si riesce a capire in bocca a uno che dovrebbe essere “materialista”. Eppure è così: da una parte un ragazzo di 23 anni seguace dell’idealismo filosofico e ossessionato dalla concretezza, dall’altra i vecchi riformisti di fine ‘800, positivisti, e quindi materialisti, ma totalmente astratti nelle loro analisi e quindi nelle loro azioni, o forse, sarebbe più opportuno dire inazioni.
Per tutto questo lo scontro tra rivoluzionari e riformisti non può essere banalizzato con gli occhi di adesso che ovviamente collocano i primi nella parte sbagliata della storia e assolvono i secondi. Si sa che nel Partito Socialista italiano dei primi del ‘900 convivevano due diverse filosofie della storia, e non c’è nessuno scandalo, nessun pudore o vergogna a riconoscere come Gramsci e Mussolini fossero dalla stessa parte: quella della filosofia idealistica contrapposta a quella positivista dei riformisti.
Questo vuol dire che un’analisi comune porta necessariamente ad esisti comuni? Assolutamente no! Non solo la storia si sarebbe presa l’onere di dimostrarlo ma una lettura attenta e profonda dell’articolo del 1914 fa già scorgere le linee di indirizzo che avrebbero allontanato Gramsci e Mussolini, concordi certo nel voler liquidare la classe dirigente liberale giolittiana – obbiettivo peraltro non dissimile dal Partito Popolare di Sturzo – ma distanti nelle strategie e nelle alleanze da stipulare; il primo avendo come nemico anche la borghesia agraria e industriale, il secondo alleandocisi.
Ora, il fatto che entrambi, Gramsci e Mussolini avessero colto il carattere di “palingenesi” rappresentato dalla guerra, mentre sostanzialmente per Turati e Giolitti essa avrebbe continuato a rappresentare nient’altro che una “parentesi”, non può comportare, ipso facto, un’assimilazione ideologica e politica del primo al secondo. Se a un politico manca l’analisi mancano le fondamenta. In quel frangente il giovanissimo Gramsci e il poco più maturo Mussolini dimostrarono di essere gli unici politici italiani ad aver compreso lo sconvolgimento in atto.
Ma ci sono anche ragioni evidenti di opportunità politica che spiegano l’opzione per una “neutralità attiva e operante” contrapposta a quella della “neutralità assoluta”, che oggi potremmo chiamare opzione dei “popcorn”. La neutralità era anche la linea di Giolitti. Schierarsi per la neutralità da parte del PSI era l’ennesima dimostrazione di una sua strutturale, assoluta, totale subalternità al partito di governo. Cosa oggettivamente insostenibile sia per Mussolini che per Gramsci.
Quindi certo, tirando le conclusioni, ci sono certamente delle consonanze tra i due sul piano dell’analisi e dell’individuazione dell’avversario politico, entrambi reagiscono al gradualismo subalterno di Turati, all’astratto utopismo del PSI, al velleitarismo inconcludente della sua classe dirigente, sia di rito riformista che di rito massimalista. Entrambi reagiscono a un partito dissociato, attraversato da conflitti e lacerazioni che non arrivano però mai a fare e dire la verità delle cose, un partito unito solo dal coro dell’Internazionale ma per il resto diviso su tutto. Un partito di uomini senza idee concrete ma pieni di ideali astratti. Un partito senza responsabilità che attende il determinarsi delle condizione perché si realizzi la rivoluzione, senza alzare minimamente un dito perché questa avvenga. Un partito senza coraggio, senza spina dorsale, che annega nel determinismo ogni occasione di operare una scelta politica. E’ contro questo partito che si muove la critica di Mussolini e di Gramsci, entrambi a ragione, convinti che sono gli uomini, ovvero i soggetti a fare la storia e non i processi, svincolati e scardinati dalla carne e dal sangue dei loro interpreti.
Se è così allora, accostare in modo sprezzante Gramsci al Mussolini, come se il 1914 fosse il 1945, mentre questi due nomi evocano da una parte il carcere politico e dall’altra le leggi razziali, non è una operazione intellettualmente e storicamente onesta seppure potrebbe esserlo filologicamente.Si è vero, Gramsci e Mussolini hanno usato le stesse parole, gli stessi concetti a un certo punto della loro vita per interpretare la situazione politica. E’ vero. Come è vero che avevano ragione loro. Perché in quell’anno, in Italia sono stati solo loro a capire che la Guerra Mondiale avrebbe completamente cambiato la storia, determinando quella che gli storici della seconda metà del ‘900 chiameranno “nazionalizzazione delle masse”.
La controprova, ovvero che i loro avversari, principalmente i riformisti ma anche i massimalisti socialisti, non fossero dalla parte giusta della storia è data dal carattere residuale, marginale, subalterno che avrebbe avuto, nel futuro il socialismo riformista. Incapace, nonostante alcuni sparuti e bislacchi tentativi, di svolgere una compiuta funzione nazionale, di rappresentare quello che recentemente è stato chiamato “il partito della nazione”, di essere, in poche parole un Moderno Principe.