“We are not here to close spreads” è un’espressione sicuramente infelice e glaciale, ma, scelta dai giornali come titolo polemico fra tutto quanto detto in oltre un’ora di conferenza stampa, è un’espressione piuttosto fuorviante e fuori contesto.
Nostalgia di Mario Draghi? Ma certo, perché Mario Draghi, prima di essere un banchiere centrale, era un politico di prim’ordine.
“Whatever it takes” non è roba da tecnici, è roba da statisti, roba da Winston Churchill.
Christine Lagarde, invece, benché provenga proprio dalla politica (è stata ministra dei governi de Villepin e Fillon), ha la stoffa propria del tecnico e non la visione politica di ampio respiro che aveva il suo predecessore.
In questo è purtroppo perfettamente tagliata per il ruolo di Presidente della BCE disegnato dai trattati. Era Draghi ad essere fuori posto, ad essere oltre.
Ormai lo sanno tutti, ma la questione di fondo sta nel mandato che i Paesi membri hanno conferito alla Banca centrale europea.
L’art. 127 del TFUE stabilisce che l’obiettivo principale del sistema europeo di banche centrali sia il mantenimento della stabilità dei prezzi. Solo dopo aver fatto salvo questo obiettivo, prosegue l’articolo, il sistema mira a sostenere una crescita economica equilibrata, un’economia sociale di mercato fortemente competitiva, la piena occupazione e il progresso sociale. Solo dopo.
Lo Statuto della Federal Reserve americana, invece, stabilisce l’obiettivo di mantenere una crescita a lungo termine degli aggregati monetari e creditizi commisurati al potenziale di crescita dell’economia reale, in modo da promuovere efficacemente gli obiettivi di massima occupazione, prezzi stabili e tassi di interesse moderati. Aggregati monetari, crescita e occupazione. Tutto prima della stabilità dei prezzi.
La domanda rivolta a Lagarde era precisa, va bene. Il giornalista le ha chiesto cosa potrebbe fare la BCE in questo momento in cui certi paesi, come l’Italia, sono tornati sotto la pressione dello spread (qui all’incirca dal minuto 40:00). Il giornalista ha anche offerto un appiglio preciso: “La BCE potrebbe attivare programmi OMT o qualcosa del genere?”, ha chiesto.
In risposta, Lagarde ha tirato in ballo i policy makers, la politica di ciascuno Stato membro e, in particolare, quella degli Stati del Nord Europa, che hanno maggiore spazio fiscale.
“Noi siamo qui”, ha detto Lagarde, “per usare tutta la flessibilità che abbiamo” (quindi, in astratto, anche gli strumenti già utilizzati o solo istituiti in passato da Draghi, n.d.r.), ma non siamo qui, ha aggiunto, “per azzerare lo spread, perché questa non è la funzione o la missione della BCE. Ci sono altri strumenti ed altri attori per questo” (“We are not here to close spreads, this is not the function or the mission of the ECB. There are other tools for that and other actors to deal with those issues”).
Il che è vero.
A più riprese, durante la conferenza, Lagarde ha tirato in ballo i governi degli Stati membri, invocando una politica fiscale coordinata.
Nella sua relazione introduttiva ha auspicato una “risposta di politica fiscale ambiziosa e coordinata per sostenere le imprese e i lavoratori a rischio” (“an ambitious and coordinated fiscal policy response is required to support businesses and workers at risk”), tirando in ballo, così, tanto un alleggerimento dei vincoli di bilancio scritti nei trattati, quanto un atto di maggiore responsabilità e solidarietà da parte dei Paesi del Nord Europa che, avendo uno spazio fiscale maggiore (cioè maggiore possibilità di spesa pubblica), dovrebbero incentivare la domanda interna, riequilibrare la bilancia commerciale (a cominciare dalla Germania) e supportare così anche l’acquisto di beni e servizi provenienti dal Sud Europa.
In altre parole, la Governatrice ha invocato uno sforzo che prima di tutto deve essere politico. Di quella politica cooperativa e solidale che dovrebbe costituire il fondamento della Ue perché ciò è scritto nei trattati, ma disatteso dal metodo intergovernativo.
Intanto, trovandoci nelle fasi iniziali della crisi, la BCE non poteva che rivolgere la propria azione verso una maggiore iniezione di liquidità nel sistema (quantitative easing aggiuntivo con acquisti di titoli di stato sul mercato secondario di 120 milardi, da qui a fine anno). Per un supporto diretto ai titoli di stato attraverso una cosa estrema come le OMT (strumento di politica monetaria formalmente istituito da Draghi per l’acquisto diretto di titoli degli Stati in fase di emissione, ma mai adottato) c’è ancora tempo. E, a dirla tutta, non dovremmo auspicare che la situazione imponga di ricorrere a una misura di tal genere, che presupporrebbe delle condizionalità molto onerose e una situazione disastrosa. E comunque, oltre le OMT (che, ripetiamo, già esistono formalmente come misura di politica monetaria), non rimane che modificare i trattati cambiando natura alla BCE, cosa che spetta ai governi decidere, non a Christine Lagarde.
Che la politica fiscale sia oggi, allo stato attuale dei trattati, il principale fattore chiave, Lagarde l’ha ripetuto un’infinità di volte.
Nel suo discorso di insediamento, lo scorso novembre, ebbe l’ardire di sostenere (molto in stile Draghi) che “una unione monetaria focalizzata troppo sulla condivisione del rischio può spingere a un eccesso di azzardo morale ma dare la priorità alla sola riduzione del rischio può portare al problema opposto con un eccesso di risparmio e una crescita fragile”.
Lagarde è anche quella che ha tirato esplicitamente le orecchie alla Germania affinché riequilibri la propria bilancia commerciale.
Come detto, si tratta di inviti rivolti, per lo più, ai Paesi che se lo possono permettere: quelli del Nord Europa in particolare.
“Non siamo qui per lo spread” o “Non aspiro ad essere ricordata per Whatever it takes n. 2” sono espressioni che di fatto tolgono alibi alla politica, che in Mario Draghi aveva trovato un ottimo supplente (un po’ come per i politici italiani quando plaudono alla nomina dei tecnici per fare tutto ciò che serve ma non porta consenso politico).
Un’intimazione alla politica europea ad uno scatto di solidarietà e integrazione. Magari con una riforma degli obiettivi della BCE per poter concorrere a pieno titolo con gli Stati Uniti e le altre maggiori potenze del mondo. Magari con gli Eurobond. Magari con un bilancio comune molto più capiente.
Immaginate se Christine Lagarde, all’esordio della crisi, avesse detto: “Nessun probema, ci penseremo noi”. La politica si sarebbe seduta immediatamente trovando nuova supplenza. Ma quello che rimane da fare, in Europa, spetta ai singoli governi, non alla BCE.
Il problema, quindi, non è Christine Lagarde. Ancora e sempre, è la mancanza di volontà e visione dei governanti dei Paesi membri, avvinghiati a spicce logiche di effimero consenso al loro interno.