Nella loro tragedia, le crisi fan bene a Paesi acciaccati come il nostro: mettono in luce le storture, le mancanze, le inadeguatezze di fronte al mondo che verrà. Parliamoci chiaro: questa non è una guerra, neanche lontanamente. Nonostante la retorica della grande battaglia contro il nemico invisibile, non siamo sfollati, né ci svegliamo nel cuore della notte con l’eco delle bombe nelle orecchie: siamo a casa ad aspettare che passi la marea. E mentre la marea passa, le nostre economie scricchiolano.
Cosa ci insegna questa pandemia?
- Nulla è inevitabile: per quanto la quotidianità ci suggerisca il contrario, accadimenti totalmente nuovi e inattesi possono sempre accadere (l’over-citato Cigno Nero)
- Non tutto è prevedibile: si può pensare di creare strutture e sovrastrutture che possano prevedere e rispondere alla totalità delle situazioni possibili (di fatto, il nostro sistema giuridico e la base della nostra costituzione), ma non saremo mai in grado di prevedere l’infinità degli accadimenti possibili
- In un mondo non determinabile, nulla può essere immutabile: se siamo d’accordo sulle due ipotesi precedenti, saremo d’accordo anche con l’idea che non esista nulla che non possa essere cambiato
Preferisco pensare che dalle crisi, come dalle sconfitte personali, più che imparare a essere resilienti (preparatevi: sarà la buzzword dell’anno), sia necessario rendersi anti-fragili (®Nicholas Nassim Taleb, autore de Il Cigno Nero): dato che la totalità degli accadimenti futuri non può essere prevista (a meno di non essere Doctor Strange) le società devono essere costruite per superare momenti inattesi e situazioni impreviste. Una società avanzata come la nostra può puntare solo su tre fattori: il capitale umano dei propri cittadini, la stabilità e la sicurezza delle istituzioni pubbliche, la produttività delle fasce attive della popolazione.
È di pochi giorni fa la proposta del PD, firmata, tra gli altri, dall’ex-Ministro delle Infrastrutture Graziano Delrio, per una Covid-Tax di solidarietà da applicare ai redditi superiori a 80.000€ (fonte: Repubblica). Poche centinaia di euro, scrive l’articolo, o qualche migliaio oltre il milione di reddito: non sembra neanche tanto. Eppure, una proposta del genere denuncia un pensiero più pericoloso dello stesso Coronavirus che attanaglia la politica e la palude istituzionale italiana: a sostenere la baracca devono essere i redditi da lavoro più alti (una percentuale in realtà misera della popolazione attiva). Questo è solo un esempio che mostra che così è sempre stato e così sempre sarà: la fascia produttiva della popolazione deve sobbarcarsi il conto, che sia il debito, la crisi, i diritti acquisiti o i redditi di cittadinanza, e deve farlo attraverso i ricavi del proprio lavoro, ovvero il reddito da uso del proprio capitale umano.
A che punto voglio arrivare dopo questa lunga (lunghissima) introduzione? Forse, davanti alla più grande crisi epocale post-bellica, è tempo di guardarsi negli occhi e domandarsi se l’intera struttura del Paese sia o meno sostenibile. Una larga fascia di popolazione vive di diritti acquisiti e di reddito da patrimonio, e il Pil del paese è sostenuto dal lavoro di 1/3 della popolazione totale, 20-25 milioni di cittadini. E la mancanza di risorse, la crisi del debito che verrà, la recessione che si affaccia sulla strada del nostro futuro, non può essere sostenuta sempre e comunque dai redditi da lavoro: serve cambiare, rivedere i privilegi in cui sguazza una porzione troppo consistente della popolazione, e riequilibrare il patto sociale.
La crisi ci insegna che nulla è immutabile e non tutto è prevedibile: davanti a un mondo simile, colpito da maremoti economici, mutamenti degli assi geo-politici, rivoluzioni demografiche, non possiamo pensare che quanto acquisito in un’epoca d’oro di crescita e prosperità debba essere mantenuto a qualunque costo. Pensioni retributive, welfare state onnicomprensivo non efficiente, tasse minime sui patrimoni e sugli asset accumulati (case, proprietà, ricchezze) sono l’ancora che non permettono al Paese di investire nella sua parte più produttiva, di spostare risorse da fasce di popolazione inattiva a fasce di popolazione attiva e innovatrice, a giovani alla ricerca di case in metropoli sempre più care, a imprenditori alla ricerca di credito e capitale in un mondo sempre più rapido, a ricercatori alla ricerca di fondi in un’economia sempre più competitiva.
Le crisi mettono a nudo le storture. Rendersi anti-fragili al futuro è imperativo, e per farlo è necessario un cambio di prospettiva, un orientamento diverso nell’uso delle risorse pubbliche. Per partire è necessario guardare ai cosiddetti diritti acquisiti e domandarsi se siano questi dei veri diritti o forse dei privilegi accumulati. Noi sappiamo – e sosteniamo a gran voce – che la risposta è la seconda: e questo è il momento giusto per abbatterli e costruire un patto sociale nuovo per un mondo forse non nuovo, certamente diverso.
Alessio Mazzucco