Pare avvicinarsi, fra molte incertezze, la “fase 2” dell’emergenza sanitaria dettata dall’epidemia da COVID-19: mentre altri Paesi europei procedono a passi spediti verso un’apparente normalizzazione, la situazione Italiana soffre di una confusione di fondo in cui le voci del Governo, delle regioni e dei diversi stakeholder si affastellano, tutti proclamando la necessarietà della condivisione e unanimità delle scelte fondamentali ma, spesso, marciando fra spintoni e dispetti. Tutti concordano, almeno, sulla gravità del passaggio storico, e sulle conseguenze sociali, economiche e – si aggiunga – psicologiche, dell’impatto dell’epidemia: è sufficiente leggere, a tale proposito, le recenti riflessioni di Muhammad Yunus per rendersi conto della portata storica del momento che si attraversa. Se questo è il contesto, una delle priorità è rimettere sui binari la macchina pubblica del Paese che, mai come oggi, ha sulle spalle la responsabilità di operare quale infrastruttura necessaria e indispensabile per cittadini, famiglie e imprese. Non solo la burocrazia deve essere in grado di perseguire l’ordinario, ma è essenziale, al contempo, sostenere lo sforzo ulteriore a favore di chi ha subito conseguenze pesantissime dal punto di vista lavorativo e sociale a seguito dell’emergenza da Coronavirus.
A dare ascolto ai principali di mezzi di comunicazione, c’è però poco da stare allegri: Raffaella Saporito, docente di SDA Bocconi, ha cercato quali e quanti articoli della stampa italiana contenessero la parola “burocrazia” tra la metà di marzo e la metà di aprile, trovando 5520 interventi, oltre la metà dei quali collegano il tema burocrazia al Coronavirus, “L’impressione”, scrive Saporito, “è che non ci sia niente di nuovo in questa nuova ondata di insofferenza anti-burocratica, se non la miccia: una straordinaria emergenza sanitaria, già diventata economica e sociale, che acuisce il bisogno di istituzioni pubbliche e ne rende più visibili i limiti”, dato che “quando i bisogni aumentano, ma le risorse scarseggiano, la tolleranza verso le inadeguatezze delle amministrazioni crolla e alimenta un discorso pubblico di discredito verso una PA incompetente o addirittura malevola e capricciosa”. Si è già tentato di descrivere come quando si parli di burocrazia la confusione regni sovrana e che la continua e pervicace commistione di piani fra politica e tecnostruttura sia un formidabile ostacolo ad affrontare, col pensiero lungo che merita, il tema di rendere sempre più adeguata alle sfide del tempo presente la macchina pubblica, composta – elemento non secondario – dalle tante pubbliche amministrazioni ai diversi livelli di governo. Eppure, le drammatiche conseguenze dell’emergenza epidemiologica e l’incertezza della gestione del futuro possono e devono costituire una spinta formidabile per coniugare almeno le basi di una strategia per la PA del dopo virus.
In un’ideale classifica dei prerequisiti di sistema per la PA del dopo virus, al terzo posto si piazza il cessare le ostilità da parte di tanta parte delle classi dirigenti del Paese e di buona parte del mondo dell’informazione, così da dismettere, una volta per tutte, stereotipi e slogan in materia di cosa pubblica che solletichino la pancia di chi vede, purtroppo, aumentare il proprio disagio e ragionare, invece, in termini di fatti, cifre e circostanze. È arrivato il momento di bonificare il dibattito pubblico, da sempre sporcato da ignoranza o malafede circa chi siano e cosa facciano i civil servant e fare ogni sforzo per entrare nel merito dei diversi problemi. Ostinarsi a parlare di pubblica amministrazione unicamente per i famosi “furbetti del cartellino”, per i fantomatici stipendi da sceicchi dei dirigenti o, ancora, per propalare la vulgata del fannullone menefreghista potrà continuare fare audience ma non sposta di un millimetro le questioni che contano. Replicare ad nauseam gli stessi, identici articoli di denuncia o i medesimi servizi televisivi che mettono alla berlina le patologie proprie di qualsiasi organizzazione complessa ha fatto il suo tempo: la vicenda del celebre “uomo in mutande” del Comune di Sanremo, dichiarato innocente dopo essere stato sbattuto in prima pagina per mesi, dovrebbe servire da utile memento a molti. Per dirlo chiaro: la critica, aspra e senza guanti bianchi, è legittima e, anzi, doverosa. Sia, allo stesso tempo, onesta.
Al secondo posto, di converso, deve trovar posto lo sforzo fondamentale delle amministrazioni pubbliche di premere l’acceleratore sulla leva organizzativa per procedere nella trasformazione del proprio schema cognitivo e comportamentale, mettendo definitivamente in piedi un cambio di paradigma ormai maturo. Favorire l’iniziativa individuale, affiancare alle necessarie griglie procedurali e gerarchiche nuove modalità di lavoro che privilegino il raggiungimento del risultato in un’ottica di crescita dell’organizzazione sono solo alcune degli interventi la cui responsabilità finale non può che ricadere sulla dirigenza pubblica, lavorando, evidentemente, sull’ambito interpersonale, relazionale e cognitivo. Un compito, invero, arduo per chi è il prodotto di una cultura il cui peccato originale è l’adempimentizzazione. Da questo punto di vista, come già osservato, è ad esempio necessario che resti traccia della vera e propria valanga costituita dallo smart working d’emergenza che si è abbattuta con violenza sugli uffici pubblici e che ha sostanzialmente stravolto tempi, relazioni e prassi interne, intaccandone l’impianto spesso sclerotico. È evidente che, a quadro normativo vigente, gli spazi di movimento creativo da parte dell’individuo e dell’organizzazione nel suo complesso sono limitati da un reticolo di norme accumulate negli anni che hanno mirato, da un lato, a scandire ogni passaggio del quotidiano amministrativo e a perpetuare l’occupazione di ogni spazio di discrezionalità con previsioni di dettaglio e contribuendo ad alimentare, con l’ossessione del controllo, quella che taluno chiama amministrazione difensiva; dall’altra, a rendere enormemente complesso il fluire dell’agire pubblico, con tempi che la pubblica opinione trova indigesti, soprattutto in presenza di emergenze come quella attuale.
In cima sul podio sale, ovviamente, la classe politica e di governo. Nell’incessante dinamica fra politica e burocrazia, alla prima spetta non solo l’individuazione degli obiettivi da perseguire durante il mandato pro tempore di governo ma, in prima istanza, la responsabilità di costruire la visione del tipo di amministrazione di cui si vuole dotare il Paese. Volendo semplificare, si potrebbe dire che dagli anni ’90 ad oggi l’approccio verso la PA, dopo la sbornia aziendalista, è stato sostanzialmente quello della riduzione dei costi (tagli lineari e blocco del ricambio del personale) senza intervenire sulla trasformazione profonda della macchina, quasi dando per scontato che la strategia da adottare fosse quella della limitazione del danno e coglierne, al massimo, i frutti elettorali. Va detto, con rammarico, che molta politica ha fallito, per mera miopia, disinteresse o espresso pregiudizio ideologico, nella missione di investire su uno dei principali beni del patrimonio del Paese, riuscendo troppo spesso a dar vita a una serie di presunte “riforme epocali” il cui pensiero dominante era esplicito: il sospetto. Paradossalmente, poi, ad una amministrazione messa a dieta ferrea e militarmente imbrigliata sono stati attribuiti, via via, compiti sempre maggiori, grazie ad una ipernormazione bulimica (sempre più a cura dell’esecutivo), salvo poi lamentare che la burocrazia non riuscisse a tirar fuori dal cappello, come per magia, gli output desiderati un secondo dopo. Un cortocircuito perverso da cui non si riesce ancora ad uscire, a meno di stipulare un nuovo patto in cui entrambi gli attori esplicitino, fino in fondo e senza riserve, le proprie responsabilità di fronte alla comunità di cittadini.
Come ha scritto Yunus, “il coronavirus ha cambiato radicalmente il contesto delle cose e i dati spiccioli. Ha spalancato davanti ai nostri occhi possibilità temerarie che non erano mai state prese in considerazione in precedenza. All’improvviso, eccoci di fronte a una tabula rasa. Possiamo andare in qualsiasi direzione vorremo. Che incredibile libertà di scelta!”. Questo vale per l’economia e vale, allo stesso tempo, per il settore pubblico: l’economia, sostiene il Premio Nobel bengalese, è uno strumento di cui servirsi, che occorre continuare a progettare e riconfigurare finché non renderà tutti felici. Ecco, burocrazia e strutture pubbliche sempre più efficienti e, soprattutto, al passo coi tempi forse non faranno necessariamente felici gli Italiani, ma potranno rendere la vita più semplice a tutti, burocrati inclusi. La palla è in campo.