Dopo 6 settimane di chiusura e clausura, le prime note di dissenso hanno iniziato, quasi in contemporanea e all’unisono, a mettere in discussione la gestione della crisi del Covid-19 e il famigerato “modello italiano”. D’altronde che arrivasse una pandemia, visti i precedenti anche recenti, non era un evento del tutto imprevedibile o impossibile. Ed è tipico di media ignoranti definirlo un “cigno nero”. Chiunque abbia ha una cultura scientifica minima sa perfettamente che sarebbe potuto accadere, ed eravamo, semplicemente, impreparati, coi piani di emergenza nei cassetti. Il dramma di ospedali diventati veicolo del contagio, di numeri più gravi rispetto ad altri paesi più organizzati, potrebbe forse finalmente far capire che dirigenti più competenti avrebbero costituito un discreto vantaggio competitivo. Oppure non avete visto Angela Merkel che spiega con competenza e disinvoltura come ha affrontato la pandemia. Come si seleziona allora la classe dirigente che dovrà gestire la crisi economica e salvare il Paese?
Mi sia consentita una parentesi. Parlo di altro, di un’esperienza di questi ultimi giorni. In passato ero stato molto vicino al mondo dei fablab e dei makers. Me n’ero innamorato quando stava nascendo in Italia, e avevo dato una mano a farlo crescere. Poi ne sono uscito, stanco della conflittualità che si era generata al suo interno, nutrita di gelosie e inutili sospetti.
Nelle ultime due settimane è tornato alle cronache perché diverse soluzioni d’emergenza sono state prodotte da stampanti 3d, probabilmente avrete tutti letto delle valvole di venturi e delle maschere subacquee trasformate in dispositivi per ossigenoterapia. La rete si è riempita di entusiasmo e progetti open source, ma i tanti volenterosi si sono scontrati con una mancanza completa di coordinamento, informazioni imprecise e insufficienti su brevetti e certificazioni, e pure una discreta dose di improvvisazione.
Ho avuto modo di osservare dinamiche piuttosto precise, che vi sintetizzo:
- Il Covid-19 ha, se possibile, aumentato la sensazione di frustrazione nelle parti sane e combattive del Paese, che si sono sentite dentro il fuoco sacro del dover fare qualcosa per reagire.
- Tantissimi hanno pensato bene di comunicare le proprie iniziative più o meno caritatevoli, più o meno loro. Chi aveva il proprio network di comunicazione l’ha riattivato e sfruttato per emergere.
- Tanti si sono incontrati e hanno messo da parte vecchie ruggini con l’idea di provare a fare qualcosa di buono.
Fino a quando durerà? Probabilmente fino alla fine dell’emergenza, dopo di che occorreranno molta pazienza e lucidità, per continuare a essere propositivi. Ma per riuscirci occorre capire che metodo adottare. Che cosa ho visto funzionare?
- Avere delle iniziative concrete, imperfette, ma che danno un minimo di valore aggiunto.
- Unire le iniziative con la logica di massimizzare i risultati: se altri fanno meglio, passo i miei contatti a loro.
- Essere trasparenti: spiegare che cosa si è fatto, che cosa si vuole fare e perché, con il giusto dettaglio e dando obiettivi chiari.
- Esercitare una leadership flessibile e comprensiva: se si sbaglia, lo si ammette senza tergiversare. Se ci sono dubbi, si chiariscono.
- Lavorare senza perdere tempo in “visibilità”, fare tutto quello che serve, anche le attività più noiose e a basso valore. Per la comunicazione ci sarà il momento giusto.
- Mostrare rispetto e riconoscere le priorità: non è chi coordina il più bravo, ma chi lavora davvero.
- Passare il testimone se altri leader emergono: anche come leader, saremo precari. Non investiremo per ottenere una rendita di posizione, ma per salvare un Paese.
Quindi, come si applica quanto sopra distillato per noi e per chi fa politica? Ricostruire il Paese dopo il Covid-19 e dopo la crisi economica che già si percepisce, richiederà un approccio emergenziale, attento al raggiungimento di risultati tangibili e immediati. Oggi cerchiamo di salvare vite umane, domani dovremo creare posti di lavoro con la stessa determinazione. Non basterà il “fare come si è sempre fatto” e sarebbe un errore mortale lasciar fare a chi finora ha sbagliato. Pertanto, chi vuole aiutare deve portare capacità concrete: coordinare, lanciare attività economiche, proporre policy. Presumibilmente i partiti cercheranno di arruolare nomi noti, in prima fila in questi ultimi mesi, per sfruttarne la visibilità. Iniziative spot inutili, se non cambiano i processi di selezione della classe dirigente.
Nemmeno mi piace pensare che la soluzione sia il consueto “uomo della provvidenza”, non perché non abbia fiducia in Mario Draghi, ma perché farebbe bene alla nostra democrazia, per una volta, salvarsi dal basso. Mi piacerebbe che mettessimo da parte distinguo, spietato spirito critico (usato solo verso i nostri pari), e trovassimo un minimo comune denominatore per un’iniziativa politica radicale.
C’è spazio, secondo me, per tutti gli imprenditori, le partite iva, i precari sopravvissuti che hanno tanta rabbia accumulata in almeno un ventennio di scarsa considerazione da parte dell’opinione pubblica gerontofila. Perché confido in loro? Perché, in questi giorni in cui sono stati abbandonati a se stessi, si sono resi conto che possono pure fare a meno dei tanti pifferai magici che gli han fatto perdere tempo finora.
ANDREA DANIELLI