All’alba del 2020, non c’era ancora il coronavirus, tutta la ex DDR, la vecchia Germania Est, ovvero le regioni più povere della Repubblica Federale, uscivano dalle politiche di coesione dell’Unione Europea avendo raggiunto e superato un livello di reddito pari al 75% di quello medio europeo: mission accomplished, Frau Merkel!
Nello stesso decennio l’Italia prima vedeva retrocedere la Basilicata, mentre ora sta faticosamente trattando su Abruzzo e Molise. Sostanzialmente tutto il sud ritorna ad essere, considerato integralmente, una grande area in ritardo di sviluppo. Con una battuta si potrebbe dire che la Germania diventa sempre più ricca e l’Italia, sopratutto il sud, diventa sempre più povera. Per giustificare questo stato di cose si è fatto e si fa ricorso a categorie etiche e non economiche: la virtù, l’efficienza, l’organizzazione tedesca a fronte del vizio, della corruzione e dell’inefficienza dell’Italia. L’hanno fatto spesso i tedeschi e lo fanno anche molti italiani in buona fede, convinti anche loro che i vincoli europei siano quella porta stretta attraverso cui necessariamente passare per poter raggiungere un posto in paradiso.
Eppure spiegare dinamiche economiche e monetarie con categorie etiche non sembra scientificamente e deontologicamente corretto, a meno di non ricorrere ad usate, ma anche smentite, teorie quali quelle che associano il successo economico e professionale all’etica calvinista e in generale al protestantesimo. Passare dagli individui agli stati in questo caso è un attimo. La Merkel peraltro sarebbe anche figlia di un pastore luterano.
Ma lasciando stare l’aneddotica, non si può non riconoscere che l’economia europea, sopratutto nella dimensione internazionale e quindi finanziaria, è un fatto di equilibri, non di etica o di valori. E invece la costruzione dell’Euro, o meglio la sua costituzione etico giuridica, sembra improntata non alla gestione razionale di tali equilibri ma all’adorazione irrazionale di un vero e proprio feticcio: quello della stabilità monetaria. Con il risultato che perseverare in questa direzione rischia, nel medio lungo periodo, di compromettere seriamente tutta la costruzione. Vediamo perché.
Il primo squilibrio che siamo invitati a cogliere guardando i fondamentali macroeconomici dei paesi dell’Eurozona è sempre il debito pubblico italiano; i continui downgrading delle agenzie di rating fanno peraltro perseverare in questa concezione. Eppure un paese come il Giappone con un debito pubblico molto superiore al nostro in termini percentuali rispetto al PIL non è considerato pericoloso. Spiegazione immediata: il debito del Giappone è dei giapponesi. Quello dell’Italia è in pancia a molti investitori istituzionali e sopratutto internazionali. Vero, ma allora il debito italiano andrebbe contabilizzato all’interno dell’area Euro e questa andrebbe considerata come un solo insieme? Mettendo sullo stesso piatto debiti pubblici debiti privati e patrimoni privati. Sappiamo che non è così, altrimenti non ne staremmo a parlare e non ci sarebbe lo spread.
Quello che in molti non sanno è che esiste un altro squilibrio meno appariscente ma molto molto insidioso all’interno dell’Area Euro e che non è il debito italiano bensì il surplus commerciale della Germania, pari nel decennio 2010-2020 ad una media tra il 7 e l’8% del PIL. Ovvero la differenza tra esportazioni e importazioni tedesche Questo nonostante la Commissione europea abbia più volte espresso la raccomandazione che i Paesi membri mantengano una oscillazione nel commercio estero tra il -4% e il + 6% del Prodotto Interno Lordo. La Germania quindi per un decennio ha regolarmente sforato questi limiti senza però potere essere minimamente sanzionata. Infatti mentre il rapporto deficit pil è un parametro scritto nero su bianco nei trattati, qui stiamo parlando di una semplice raccomandazione priva di qualsiasi vincolo giuridico. Ma da dove originava tale raccomandazione?
Più di 80 anni fa, il più importante economista del ‘900, John Maynard Keynes, sosteneva che “l’equilibrio di un gruppo di nazioni in un regime di moneta unica è incompatibile con un surplus commerciale strutturale di una singola nazione verso le altre. Sarebbe in ultima analisi perpetuare uno squilibrio non la ricerca di una convergenza. Keynes diceva che nazioni debitrici e creditrici sono co-responsabili dei disavanzi commerciali permanenti e che la colpa ricade su entrambi, mentre al momento in Europa qualsiasi colpa ricade esclusivamente sui Paesi debitori.1
Insomma, il mantenimento di questo surplus commerciale, non può essere considerato un premio alle virtù teutoniche ma invece piuttosto una disfunzione della costruzione della moneta unica. La cartina di tornasole di questo ragionamento è l’andamento del debito pubblico tedesco che era l’82% del PIL nel 2010, stesso livello del debito americano, e che, all’alba del 2020, tornava al 60% del PIL. La Germania è l’unico grande paese occidentale ad essere tornata ai livelli di debito pubblico precedenti alla crisi del 2008.
Ora, questo risultato di finanza pubblica è l’altra faccia della medaglia del surplus commerciale industriale che è stato analizzato in precedenza. E’ il primo che rende possibile il secondo. Possiamo dire che tutto questo è frutto della virtù tedesca? No è frutto di una governance della moneta unica costruita su misura delle necessità dell’apparato industriale tedesco e di alcuni paesi che le fanno da cintura: essenzialmente Olanda, Austria e Repubblica Ceca, i cui bilanci pubblici infatti hanno andamenti simili.
Keynes, che pur essendo una persona squisita non si mise mai a dare patenti di moralità alle performance economiche delle nazioni, aveva colto un punto: la competitività non è la misura della virtù di una nazione, perché l’economia tende naturalmente all’equilibrio. La competitività è un fattore variabile perché non dipende semplicemente dalla buona volontà o dalla capacità di un soggetto, ma dalle condizioni degli altri soggetti. La competitività è un concetto per definizione relativo ma la filosofia economica che presiede l’Eurozona ne ha fatto un valore assoluto: esporto dunque sono.
La competitività è relativa perché qualora si riscontrasse un surplus commerciale perdurante e rilevante la moneta di quella nazione si apprezzerebbe talmente, ovvero quella degli altri partners si svaluterebbe di quel tanto da rimettere in discussione i pregressi livelli di export. Questo però, nella zona Euro non può avvenire perché abbiamo tutti la stessa moneta, né ovviamente possiamo mettere dazi per limitare le importazioni delle nazioni che hanno un costante surplus commerciale.
Non c’è ovviamente nella pubblica opinione la percezione che questo sia effettivamente uno squilibrio urgente da riaggiustare. Sembra tutto molto naturale. Del resto la qualità dei prodotti dell’industria tedesca è proverbiale. Eppure no. Non c’è niente di naturale. L’Euro ha rappresentato e rappresenta la moltiplicazione per oltre quattro volte del mercato interno della Germania, da 80 a 340 milioni di consumatori, il che vuol dire la sopravvalutazione delle monete nazionali degli stati partner dell’Euro. Questi, impossibilitati come abbiamo visto a svalutare la propria moneta, per stare al passo della Germania sono stati costretti a svalutare il lavoro. Ma non è finita qui. L’Euro ha calmierato la forza della moneta tedesca amalgamandola con quelle più deboli dei vicini, questo ha generato un effetto di sottovalutazione della possibile moneta della Germania rispetto a 7 miliardi di consumatori mondiali. Un doppio vantaggio competitivo di carattere monetario sta quindi alla base delle magnifiche performance dell’esportazione commerciale tedesca. Meglio davvero non scomodare le virtù del popolo e la qualità dei prodotti.
Si è detto che l’altra faccia del surplus commerciale è il calo del debito pubblico. Vediamo come si determina. Prestare soldi alla Repubblica Federale genera interessi negativi: si presta ad esempio 100 e dopo un certo tempo si riceve 100 – x. Eppure la Germania non ha problemi a collocare titoli. C’è un silenzio assordante degli economisti su questo fenomeno. Un fatto che da solo basterebbe a minare le fondamenta di tutta la micro e la macroeconomia che si studia all’università. l’Homo Oeconomicus che persegue il profitto e il guadagno non potrebbe mai sottoscrivere i bund tedeschi visto che sono negativi. Sarebbe totalmente irrazionale. Sarebbe come dire che “il punto ha dimensione” salterebbe tutta la geometria euclidea. Eppure noi assistiamo allo spettacolo di uno stato che guadagna dal chiedere soldi in prestito, che poi sarebbe il fenomeno all’origine dello spread che tutti quanti conosciamo, il differenziale di rendimento tra i titoli italiani e tedeschi. Ora, siccome siamo in economia e non possiamo supporre azioni unilaterali di generosità, è evidente che chi presta soldi allo stato tedesco sapendo di perderli ha la certezza che da qualche altra parte quello stesso stato glieli fa guadagnare. Se riflettiamo che tutto questo non ha i caratteri della trasparenza, non può avere neanche i requisiti della virtù che per essere tale, come recita l’adagio,non può non essere “specchiata”.
Ci sono segnali che anche in Germania ci si è accorti che questo modello non è sostenibile, proprio perché, appunto, non è un equilibrio. La cancelliera Merkel in un recente discorso al Bundestag ha parlato dell’Unione Europea come comunità di destino, ma comunità di destino porta a concludere una sola moneta, un solo debito, un solo spread, non una sola moneta e 15 spread con buona pace della Corte Costituzionale di Karlsruhe. Ma a questo punto il ragionamento diventerebbe istituzionale e costituzionale.
Per rimanere e chiudere sull’economico poche altre considerazioni: Si dice che il debito dell’Italia lo debbano ripagare gli italiani. Affermazione che non fa una piega, salvo riconoscere che le presenti condizioni geopolitichee geoconomiche, a prescindere dal coronavirus, non permettono all’Italia, il paese con la più lunga stagnazione economica degli ultimi 20 anni, di poterlo ripagare.
Ora, se noi vediamo la storia recente, proprio questi ultimi 20 anni, non possiamo che dare ragione alla Germania. Ma se esaminiamo le dinamiche con prospettive più secolari, siamo portati a concludere che se “la Rivoluzione in un Paese solo” nel ‘900 non ha fatto una bella fine, ecco, c’è da supporre che neppure “la “Riduzione del debito in un paese solo” possa avere un esito simile.
1Massimo Amato, Università Bocconi; “L’annosa questione degli squilibri economici internazionali, il piano Keynes e l’UEP”