Il fiume carsico è riemerso e scorre nuovamente in superficie, ruggendo. Occorre ripartire, ricominciare a correre, spalare con lena carbone nella fornace della locomotiva Italia. E bisogna fare presto. Ecco, dunque, la formula magica, la chiave che aprirà ogni porta, l’invincibile Durlindana con cui vincere la battaglia delle battaglie: semplificare la burocrazia. La devastante crisi da Covid-19, che ha causato più di 30.000 morti nel nostro Paese e che minaccia di schiantare un intero ciclo economico, colpendo duramente le fasce sociali più fragili e già in difficoltà, ha reso evidente quanto una burocrazia efficiente e una struttura amministrativa solida siano una parte fondamentale e indefettibile di una società complessa e di uno Stato democratico. Curioso, tuttavia. Dileggiare e disprezzare burocrati e tecnostrutture è da decenni lo sport nazionale, il familiare leitmotiv che vuole lavoratrici e lavoratori del settore pubblico candidati un giorno sì e l’altro pure alla decapitazione in pubblica piazza. E, invece, in uno dei momenti più bui della storia recente anche i peggiori nemici di tutto ciò che è pubblico guardano con speranza ed apprensione all’odiato Moloch, al perfido Leviatano che volentieri abbatterebbero con torce e forconi manco fossero sul set di Frankenstein ma che, ora e adesso, deve darsi da fare. La burocrazia torna di moda. Serve. Eppure tanta politica e tanta informazione hanno sempre usato condire le loro pietanze col prezzemolino della burocrazia inutile e dannosa, dei troppi dipendenti pubblici e dell’opportunità di tagliare gli insostenibili costi della macchina dello Stato, celebrando, come un mantra, le virtù dell’azienda privata, le cui regole dovrebbero informare l’azione amministrativa pubblica. Fino alla messa all’indice dei poliziotti panzoni, dei furbetti del cartellino come idealtipo del dipendente pubblico, dei Fantozzi ai quali “io pago lo stipendio”, alimentando una vera e propria campagna d’odio che, a seconda del vento che tira, prende nuovo vigore e minaccia di distruggere la baracca. Ed è sinceramente spassoso, dato che nessuno sano di mente, dannati burocrati inclusi, si sognerebbe mai di obiettare alcunché rispetto all’esigenza che la macchina debba funzionare meglio. Le amministrazioni pubbliche Italiane, che contano ormai poco più di 3 milioni di lavoratori a tutti i livelli di governo (con una forza lavoro in calo rispetto ai grandi Paesi europei paragonabili all’Italia), hanno tanti problemi, tutti simili ma tutti diversi. Parafrasando Tolstoj, si potrebbe azzardare a sostenere che se tutte le amministrazioni che funzionano si somigliano, ogni amministrazione che zoppica è disgraziata a modo suo. Con l’aggravante che la situazione Italiana è tipicamente strutturata a macchia di leopardo, un susseguirsi di arcipelaghi e di coste frastagliate che, a mo’ di frattale, ha una varietà quasi infinita. Naturalmente a volte questa diversità risponde a esigenze concrete, intercettate ed emerse nell’agenda del Governo o del Parlamento; altre a necessità di bottega, per creare posizioni volute da pezzi della politica, che organizzano propri spazi di potere maneggiando come creta le strutture pubbliche.
Semplifichiamo, dunque. Abbattiamo, grazie al sacro colpo della Divina Scuola di Hokuto, coloro che Gian Antonio Stella ha graziosamente chiamato i “buromostri”. Per taluni la burocrazia è, infatti, un’inutile complicazione che gli occhiuti mezzemaniche alimentano incessantemente, bisbigliando negli oscuri angoli di archivi polverosi e utilizzando un linguaggio da iniziati conosciuto solo a coloro i quali hanno pronunciato il millenario Giuramento del Calamaio. Nella burocrazia essi prosperano, sadici complottatori che impiegano le noiose ore passate in ufficio ad escogitare nuovi e mefistofelici trucchi per angariare il cittadino inerme. Mai dimenticare, naturalmente, che l’occupazione primaria dei buromostri è quella di tiranneggiare il politico di turno, anima immacolata alla mercé di questi Signori del tempo perso, come con poetica ispirazione li hanno definiti qualche anno fa Francesco Giavazzi e Giorgio Barbieri. Si faccia, finalmente, piazza pulita: tagliamo, accorciamo, ricuciamo la trama della burocrazia che, testarda, non vuole firmare. Anche il recente Piano Colao ha individuato, per una “PA alleata di cittadini e imprese”, alcune linee di intervento per un investimento sull’amministrazione, sia in termini di capotale umano, sia come spinta alla digitalizzazione, rilevando che è necessaria una semplificazione delle procedure aggravate dalla burocrazia difensiva che, terrorizzata dal coacervo di responsabilità che gravano sul suo operato, non firma. Dovrebbe, tuttavia, rilevarsi, sul punto, che se è di manifesta evidenza che la congerie di responsabilità diverse sul capo del travèt sia oggettivamente gravosa, questi non soffre di attacchi di panico ma si limita al mero rispetto delle norme che, finché in vigore, vanno rispettate, conscio del fatto che la sua scrivania non sia un tavolo da poker. Poco importa: come ha rilevato Giovanni Valotti, siamo pronti a ingranare la quarta, dato che non manca nulla: la politica è unanimemente concorde, gli Stati Generali convengono e le opinioni pubbliche appoggiano la riforma delle riforme. Nessuno, però, che si muova a constatare che una struttura pubblica tra le più vecchie e demotivata, denigrata e tollerata con supponenza, che per anni ha vissuto, grazie al blocco del turn over, una costante emorragia di teste e competenze, abbia miracolosamente tirato avanti la carretta. Una PA in cui l’accesso per concorso, costituzionalmente garantito, è costantemente incalzato da sanatorie, promozioni sul campo con leggine ad hoc e disinvolti piazzamenti di amici e sodali. Lo stipendio lo portano a casa, in fondo, quegli ingrati garantiti: non si osi levare un lamento. D’altronde il “miracolo” del Ponte di Genova è, a furor di popolo, la plastica dimostrazione che, togliendo di mezzo le pastoie burocratiche, tutto è possibile: al pari del sangue di San Gennaro, ogni ostacolo si scioglierà come neve al sole e quei “Signor No” saranno costretti a smettere, una buona volta, di remare contro e a volgersi finalmente verso il sol dell’Avvenire che, come nella scena finale di Palombella Rossa, si staglia all’orizzonte.
Se questo è il quadro, e se tutti convengono che denari, aiuti e servizi a cittadini, famiglie e imprese devono arrivare nel più breve tempo possibile per evitare una pericolosa deriva nazionale, sia consentita una banale osservazione a margine. Semplificare hic et nunc? Benissimo: Governo e Parlamento hanno il più ampio potere, all’interno dei paletti posti dalla Costituzione, per intervenire sul funzionamento della burocrazia. Qualcuno potrà subire uno shock nel venirne a conoscenza, ma le leggi non le scrivono le burocrazie. Quando l’iniziativa è del Governo (la consuetudine, ormai) ci mettono naturalmente le mani gli uffici di diretta collaborazione dei ministri, come chiarisce con cinica maestria l’anonimo e altezzoso capo di gabinetto de “Io sono il Potere” (Feltrinelli), un agile libretto per la cui lettura si raccomanda un Alka-Seltzer. Alla burocrazia, invece, tocca applicarle quelle leggi, esibendosi in quotidiani slalom esegetici per arrivare all’implementazione di norme spesso oscure. Insomma: è piena facoltà del Legislatore plasmare come meglio crede l’amministrazione e le regole che ne disciplinano il funzionamento e qualunque burocrate attende con viva e vibrante speranza di vedere semplificato il quadro di dettami che informa la propria azione quotidiana. Sperano anche, costoro, che altrettanta attenzione venga dedicata a costruire insieme una moderna idea di lavoro pubblico, magari facendo tesoro della preziosa lezione dello smart working d’emergenza di questi mesi, deflagrato nelle amministrazioni pubbliche ma non certo una novità per il settore privato più avanzato. Sperano, i burocrati, che nella testa del Paese si comprenda che un’azione amministrativa attenta è garanzia per tutti, argine alla filosofia dell’aiutino, parte integrante del DNA della Penisola, e che si capisca che l’immagine da catena di montaggio fordista marchiata a fuoco nell’immaginario collettivo è una panzana buona per titoloni e scandali giornalistici, ma terribilmente datata. Ricordando, nell’affrontare un tema serio come quello di rendere sempre più efficace l’azione della macchina pubblica, patrimonio comune di tutti i cittadini, che i lavoratori non sono dei robot, esclusivamente utili ad eseguire comandi e a dar seguito, senza batter ciglio, ai voleri della politica. Qualunque essi siano. Chiunque sia al Governo. Sim sala bim!