Inutile, in tutta franchezza, sorprendersi dell’ennesima bagarre scatenata da Vittorio Sgarbi, che solo poche settimane fa aveva addirittura richiesto l’arresto di Silvia Romano, finalmente rientrata in Itala dopo un lungo sequestro, per concorso esterno in associazione terroristica. Dopo le dichiarazioni alla Camera dei deputati contro “la criminalità di magistrati che fanno l’opposto del loro lavoro”, l’impietoso resoconto stenografico d’aula del 25 giugno scorso riporta in dettaglio come egli abbia dato in escandescenze, insultando ripetutamente l’on. Giusi Bartolozzi, che aveva preso la parola e difeso la categoria dei magistrati, e la Presidente di turno Mara Carfagna, la quale, dopo due richiami verbali, ha espulso Sgarbi il quale, rifiutandosi di allontanarsi, è stato portato via di peso da alcuni commessi. Il solito, eccessivo comportamento di un polemista dichiarato? “Qui di eccessivo c’è solo il fatto che l’esponente più importante della cultura italiana presente in Parlamento, un critico tradotto in tutto il mondo, sia stato portato via di peso da quattro commessi, impedendomi di votare. Pensi se l’avessero fatto con Croce o Montale”: questa la strabiliante risposta alle domande poste da Concetto Vecchio su Repubblica. Non solo. Alla condanna del Presidente della Camera Roberto Fico, Sgarbi ha replicato, riportano i quotidiani, negando le offese (“Alla Bartolozzi mi sono limitato a dire sei ridicola”) e denunciando una strumentalizzazione: “Le persone e i deputati non si dividono per sessi, e io non ho detto nulla di diverso da quello che avrei detto a un deputato maschio”. Ma non finisce qui: sono immediatamente scattati in piedi, a tempo di record, i difensori della schietta, virile franchezza che si oppone all’imperante pensiero unico che imbavaglia chi, senza ipocrisie o manie da molliccio politicamente corretto, dice le cose come stanno. Senza senso alcuno del ridicolo sostengono, costoro, che Sgarbi sia stato cacciato dall’aula per aver osato muovere accuse a quello che è ormai noto alle cronache come il “sistema Palamara”. Ed è ben curioso, perché la critica alla magistratura è un refrain del “marchio” Sgarbi che, per sette anni, dal 1992 al 1999, da deputato della Repubblica ha avuto modo di esternare liberamente dagli schermi televisivi, con una personale striscia quotidiana senza contraddittorio in onda su Canale 5, tornando più e più volte sul tema. A dispetto della levata di scudi, la lettura dello svolgimento della seduta mostra inequivocabilmente come Vittorio Sgarbi avesse tranquillamente concluso il suo intervento, applaudito da parte dell’emiciclo, e che solo dopo aver apostrofato con l’appellativo di “tr***” (sic!) l’on. Bartolozzi, intervenuta successivamente, si è arrivati all’espulsione dall’aula. Meglio, dunque, sgombrare il tavolo da pelosi (e penosi) equivoci: criticare la magistratura, pure coi toni poco condivisibili da sempre utilizzati dal Nostro, è attività che rientra appieno nelle prerogative proprie del mandato parlamentare, in base al quale, come recita la Costituzione, l’on Sgarbi rappresenta la Nazione, esercitando le sue funzioni senza vincolo di mandato. Sebbene, come ricorda Openpolis, con un sonoro 80% di assenze in Parlamento. Tutto legittimo, naturalmente: ogni parlamentare espleta i propri doveri come e meglio crede, avendo come unici giudici naturali il proprio partito o movimento, che deciderà se ricandidarlo, e i cittadini, che valuteranno se votarlo o meno. Vista l’assidua frequentazione degli scranni parlamentari e i ripetuti mandati presso enti locali, è di tutta evidenza che l’ondivago iperattivismo in politica e le reiterate, violente intemperanze di Sgarbi non costituiscono un problema. Anzi. Eppure, dopo questo ennesimo episodio che, assieme all’indecente sessismo, svilisce un Parlamento di fibra già cagionevole, non può tacersi un’urticante verità: questo arrabbiato personaggio, aduso alla violenza verbale e alla villania esercitati comunque e ovunque, non è mai stato solo nella sua compulsiva crociata. Esempio vivente della fondatezza dell’espressione latina nomen omen (nel nome il destino), Sgarbi è stato cresciuto con amore negli anni da chi, nella televisione e nei partiti politici, ha riso alle sue intemperanze, coccolato le sue deliranti invettive, spianato la strada per lui in Parlamento, che pure, da consumato presenzialista, ha potuto frequentare assai poco. È stato affettuosamente allevato e costantemente ricercato da quell’informazione radiotelevisiva che si è tappata le orecchie pur di raggranellare qualche punto in più di audience e ammassare denari per la pubblicità, gettando alle ortiche non solo dignità e deontologia professionale ma il rispetto per gli spettatori. Ed è stato portato in palmo di mano da quella politica che, incurante di tutto, ha sempre confidato, leccandosi i baffi, nella popolarità dello Sgarbi televisivo per raccogliere voti, derubricando i continui eccessi del proprio eletto come mere eccentricità, tuttavia sempre utili per i propri obiettivi. Inutile sorprendersi, si diceva all’inizio. Indignarsi sì, però. Si deve. Non tanto e non solo di Sgarbi, oculato curatore della sua immagine e oggi, ormai, prigioniero di sé stesso e costretto a interpretare all’infinito la propria parte. Ci si deve indignare per l’assuefazione alla parola ostile, per il disprezzo verso la donna, per lo scandaloso interesse dei media, per lo spietato cinismo di tanta politica. E per chiunque abbia, nel tempo, applaudito alle innumerevoli esibizioni da consumato attore e sghignazzato ai suoi odiosi, urlati insulti. Lo avete cresciuto voi. E ve lo meritate, Vittorio Sgarbi! Non il Parlamento. Non il Paese. Non chi crede nella disintossicazione di un discorso pubblico avvelenato. Non noi.
29 Giugno 2020