Ipse Dixit“Giovinette”

Il romanzo «Giovinette, le calciatrici che sfidarono il Duce» (Solferino) restituisce finalmente giustizia a un gruppo di ragazze i cui sogni, nel 1933, furono bruscamente interrotti dal regime: «Abbiamo bisogno di buone madri non di calciatrici»

Il romanzo «Giovinette, le calciatrici che sfidarono il Duce» (Solferino) restituisce finalmente giustizia a un gruppo di ragazze i cui sogni, nel 1933, furono bruscamente interrotti dal regime: «Abbiamo bisogno di buone madri non di calciatrici» 

Solo un giuoco, un amatissimo giuoco. Che però Rosetta e le sue compagne, un manipolo di “tifosine” — come si diceva allora — milanesi, le prime donne in Italia a fondare una squadra di calcio, il Gfc, Gruppo Femminile di Calcio, non poterono giocare a lungo: il fascismo glielo impedì. La loro storia, a lungo dimenticata, è diventata un romanzo, Giovinette (Solferino) scritto dalla giornalista del Corriere Federica Seneghini, che ha ricostruito la loro vicenda sulla base dei documenti dell’epoca, della testimonianza dell’ultima superstite e dei ricordi dei parenti delle protagoniste. 

© Elena Tebano – Il Corriere della Sera

 

Federica Seneghini

Federica Seneghini, trentotto anni, genovese, al Corriere della Sera da febbraio 2012. Nella sua  “prima vita” ha lavorato come freelance, occupandosi di tematiche socio-ambientali. E’ laureata in Lettere Moderne all’Università di Bologna, ha vissuto e lavorato in Inghilterra, in Finlandia, in Scozia ed a Barcellona. Attualmente è giornalista del «Corrie­re della Sera» nella redazione online ed è a capo della squadra social del quotidiano di via Solferino.


 

Perché il calcio e perché proprio il calcio femminile?

L’idea di scrivere un romanzo sul calcio ed in particolare sul calcio femminile mi è venuta lo scorso anno, dopo avere conosciuto la signora Grazia Barcellona, la nipote delle protagoniste del mio libro.

Mi sono immediatamente appassionata al suo racconto ed alla narrazione delle vicende della prima squadra di calcio femminile milanese, che vedeva schierate in campo le zie della signora Grazia come calciatrici e la mamma come commissario della formazione.

Sono stata ospite a casa sua insieme allo storico Marco Giani, che firma il saggio a fine volume, abbiamo fatto una bella chiacchierata insieme anche ai suoi figli, mi hanno fatto vedere delle vecchie foto della squadra e mi hanno raccontato una serie di aneddoti che si tramandano da decenni nella loro famiglia.

E’ partito tutto da questo incontro, la scintilla è partita da queste nostre quattro chiacchiere davanti alle vecchie foto di famiglia.


Tracciamo un sintetico quadro storico del periodo nel quale hai deciso di ambientare il tuo romanzo. Siamo nel pieno dell’era fascista.

Siamo nel pieno dell’era fascista, allo scoppio della guerra mancano ancora diversi anni; sono già passati dieci anni dalla Marcia su Roma.

Milano e le altre città d’Italia accolgono Mussolini che celebra il decennale della marcia con imponenti manifestazioni.

A Milano, il 4 novembre del 1932, il duce parla in piazza del Duomo davanti a migliaia di persone mentre altrove, in silenzio,  un gruppo di ragazze scende in campo per la prima volta ed inizia a giocare a calcio.


Milano 4 novembre 1932 – Istituto Luce

Un accenno alla trama del tuo romanzo; spoileriamo il meno possibile perché il libro è bello e non va tolto al lettore il piacere di leggerlo e di scoprirlo un po’ alla volta.

La storia inizia nell’autunno del 1932; un gruppo di giovani ragazze di Milano si incontra tra il verde dei giardini cittadini e decide di fare qualcosa di “diverso”, ovvero giocare a calcio. Sino a quel momento nessuna donna in Italia aveva mai praticato il giuoco del calcio in modo organizzato e tantomeno in pubblico.

Per le giovani milanesi si tratta quindi di qualcosa di  assolutamente inedito. Provano e si divertono. Provano ancora ed il divertimento cresce in modo esponenziale. Allora iniziano ad organizzarsi, trovano un allenatore ed un presidente. Ovviamente, visti i tempi, un uomo; un agiato commerciante di vini appassionatissimo di calcio.

Una domenica dopo l’altra si allenano con puntiglio, trovano un piccolo sponsor (il “Cinzano”) e si procurano due mute di maglie.  Due mute sono indispensabili per non creare confusione in campo e per potere riconoscere le due formazioni che si affrontano in allenamento; ormai sono quasi cinquanta le ragazze schierate sul terreno di gioco.

Impossibile continuare ad allenarsi in semi clandestinità e quindi giunge il momento di presentarsi ufficialmente alla città, al mondo dello sport ed all’Italia intera. Vengono quindi preparate delle lettere che sono inviate alle redazioni dei principali giornali sportivi nazionali, alle riviste illustrate, ai quotidiani.

Le risposte che giungono non sono proprio entusiasmanti, ci sono commenti poco garbati e critiche e gli articoli che vengono pubblicati sono colmi di pregiudizi.  Le ragazze non si demoralizzano, la propria passione per il calcio non si affievolisce e domenica dopo domenica continuano ad allenarsi. Hanno tutte tra i quindici ed i vent’anni e sono piene di entusiasmo.

La svolta avviene quando riescono ad ottenere un primo riscontro positivo nientemeno che da uno dei grandi capi dello sport fascista, Leandro Arpinati (uno dei gerarchi più fedeli a Mussolini), l’allora presidente della Federazione Giuoco Calcio.

E da qui…

Stop. Non togliamo il piacere della scoperta a chi sceglierà di leggere il tuo romanzo. Con la trama ci fermiamo qui.

Le donne che nei primi decenni del novecento seguivano con passione il calcio venivano etichettate come “tifosine”. Un diminutivo che strizza l’occhio ad un vezzeggiativo un po’ irridente. Sentire oggi un termine del genere fa drizzare i peli del collo in direzione ostinata e contraria. Ai tempi di “Giovinette” come veniva accolto dalle signore questo termine?

Veniva accolto diversamente da come può venire accolto oggi. In alcuni casi furono le giovani calciatrici stesse a prendersi un po’ in giro. Mi riferisco ad una lettera che scrissero ai giornali, una lettera molto lunga. In chiusura ironizzarono esse stesse sulla lunghezza del loro scritto: “perdonerete, ci siamo dilungate, ma siamo donne”. 

L’autoironia era un cavallo di battaglia di queste ragazze; si parla di una storia ambientata quasi novant’anni fa, il linguaggio era molto diverso da quello che usiamo oggi, così come la considerazione che si aveva delle donne e non solo di coloro che praticavano attività sportive.

Il Calcio Illustrato, 26 luglio 1933

Dal tuo romanzo si sprigiona un profumo intenso, il profumo di una Milano che chi è nato sotto la Madonnina o chi a Milano è vissuto non può non percepire. Ti sei documentata a tavolino per disegnare così bene la mia città oppure hai chiuso gli occhi e ti sei lasciata cullare dall’immaginazione?

Di immaginato c’è ben poco. Io sono di Genova ma abito a Milano da almeno dieci anni e la città la conosco. Per documentarmi bene sui luoghi che ho citato nel romanzo ho letto i giornali dell’epoca, come la Domenica Sportiva, sono stata negli archivi del Corriere della Sera  e della Gazzetta dello Sport. Ho studiato gli edifici che ospitano la storia delle ragazze, dai palazzi dove risiedevano ai giardini dove si incontravano, ai navigli già parzialmente coperti e ho controllato le date di costruzione e lo stato in cui si trovavano negli anni trenta del secolo scorso.

Direi che non ho lasciato spazio all’immaginazione, in un romanzo storico si rischia di fare degli errori, meglio documentarsi bene.

Milano – Arena Civica –

Posso avanzare una piccola critica, anzi meglio, posso fare una rimostranza ufficiale? Troppo nerazzurro in questo libro, non si parla che di Inter e di Ambrosiana. E nemmeno un cenno alla prima squadra di Milano, i diavoli rossoneri. Ma poi, tu non sei doriana?

Sono sampdoriana, e mi dispiace molto che la Sampdoria non abbia una prima squadra femminile; a Genova comunque possiamo vantare la vittoria del primo campionato “ufficioso”, conquistato nel 1968 dalle ragazze rossoblù.

Nel libro c’è tanta “Inter” perché nella storia reale di queste ragazze c’era veramente una presenza costante ed importante del Biscione. Anche in questa circostanza non ho inventato nulla; le sorelle Boccalini erano veramente tifose nerazzurre, tifose sfegatate. Ed è un fatto reale che l’Ambrosiana Inter di Meazza andò ad osservare l’allenamento della squadra femminile, nel luglio del 1933.

Poco Milan? Si, ma dobbiamo ricordare che all’epoca il Milan giocava a san Siro mentre l’Inter giocava all’Arena Civica ed anche da un punto di vista logistico le storie sportive delle due squadre erano ben distinte e separate, in città i “circuiti” erano differenti.

Nella squadra femminile erano presenti diverse tifose dei rossoneri, ma le mie protagoniste (le sorelle Boccalini e Giovanna Barcellona) erano tutte di provata fede interista. I loro nipoti mi hanno confermato che questa passione non si è mai spenta e sino alla fine della loro vita sono sempre  state attentissime alle vicende sportive dei loro beniamini. Le sorelle Boccalini andavano allo stadio anche quando erano ormai diventate anziane.


Nella seconda parte del volume troviamo un saggio sul calcio femminile a firma di Marco Giani.

Marco Giani (Gallarate, 1984), storico e insegnante, è membro della So­cietà Italiana di Storia dello Sport. È auto­re di diversi articoli accademici sul calcio femminile in Italia.

Il saggio di Marco Giani è una parte fondamentale e complementare della pubblicazione. Per forza di cose il romanzo contiene alcune parti ricostruite con la fantasia e romanzate. Il saggio di Marco Giani consente di avere una visione oggettiva sul calcio femminile, anche su quello successivo agli anni trenta.

Le note a piè di pagina, la bibliografia, l’impeccabile documentazione permettono di avere nel volume una summa di quello che è il calcio femminile italiano, dagli anni trenta sino ai giorni nostri.

Affiancare uno studio accademico al romanzo è stata una scelta editoriale ben precisa che ritengo vincente.


 

“Sarebbe bello che Milano, novanta anni dopo, le ricordasse intitolando loro una strada o un campo sportivo”. Idea bella e romantica. Non sarebbe meglio che invece venisse loro dedicata la nuova legge che dovrà, prima o poi, parificare realmente il calcio femminile a quello maschile? Dopo novanta anni il giuoco del calcio femminile è, incredibilmente, ancora borderline tra lo sport ed il curioso fenomeno di costume. Duro a morire il pregiudizio.

Lo penso anch’io. Molti pregiudizi esistono ancora. Una vera parificazione tra campionato femminile e maschile ancora non c’è. Alla fine della pandemia i campionati maschili sono ripresi (sia pure con tutte le precauzioni stabilite da un rigoroso protocollo) mentre la serie A femminile è rimasta al palo e le ragazze non hanno più avuto l’opportunità di tornare in campo.

E’ sotto gli occhi di tutti che i due massimi campionati di calcio nazionali – maschile e femminile – sono ancora molto lontani dall’essere una sola cosa.

Anche a livello mediatico la differenza di trattamento riservato alle due competizioni è enorme. Sui giornali nazionali non si trovano quasi mai notizie riguardanti il calcio femminile; a volte qualche trafiletto, qualche riga, qualche tabellino riservato alle partite di cartello. In televisione un canale a pagamento trasmette una partita alla settimana, il grande pubblico non viene raggiunto.

Alcune calciatrici del Gruppo femminile calciatrici milanese poco prima di un allenamento in un campo di Milano, nell’aprile del 1933. In piedi, da sinistra: Frida Marchi; Ester Dal Pan; Rosetta Boccalini (con la fascia bianca in testa); Elena Cappella; Augusta Salina; in ginocchio: Wanda Dell’Orto; Brunilde Amodeo; Graziella (o Maria) Lucchese; sedute: Losanna Strigaro; il piccolo Dell’Era; Wanda Torri.

 

C’è qualcosa che frena il decollo definitivo di questa disciplina. Consideriamo normale e scontata l’affermazione delle donne in ogni campo, accademico, sportivo, lavorativo. Ma quando si parla di calcio femminile qualcosa scatta e fa partire il freno a mano. Novant’anni fa per il calcio delle donne era NO. Oggi non siamo ancora al SI deciso, ci barcameniamo con uno stentato NI. 

Il calcio è uno sport fisico, uno sport di contatto. La maggior parte degli sportivi e delle persone comuni hanno una sorta di riserva mentale riguardo all’idea di uno sport che porti a scontri fisici rudi e decisi tra donne. E nel calcio sappiamo che i colpi si prendono e si danno. Manca l’abitudine a questo genere di competizioni sportive tra donne.  Dovrebbero esserci molti più passaggi televisivi, molte più partite trasmesse in diretta ma purtroppo tutto ciò manca ed il calcio femminile continua navigare in un limbo che lo vede più come uno spettacolo che come una disciplina agonistica.


Il mio sogno è quello di vedere il libro letto nelle scuole.


Quali sono le tue aspettative riguardo il libro e che genere di reazioni ti attendi dai tifosi e dagli addetti ai lavori?

Il mio sogno è quello di vedere il libro letto nelle scuole. Pur non essendo un libro per bambini offre diversi livelli possibili di lettura; lo si può leggere come un’avventura coraggiosa o come una storia di resistenza.

Mi piacerebbe che a leggerlo fossero anche gli addetti ai lavori, le calciatrici, i tecnici, i dirigenti del movimento calcistico femminile, sia donne sia uomini. Se fossero in particolar modo i calciatori uomini a leggerlo sarei oltremodo contenta.


“Giovinette” racconta i primordi del calcio femminile azzurro, il saggio di Marco Giani documenta tutto ciò che è accaduto a seguire. Se tu potessi dare un suggerimento a questo movimento calcistico femminile, cosa proporresti?

Senza l’impegno delle grandi società non se ne esce, senza l’impegno forte, costante e convinto delle società il calcio femminile è destinato a vivere in una dimensione del tipo “vorrei, ma non posso”.

Per migliorare nella tecnica, nella preparazione fisica e nei risultati è indispensabile l’appoggio serio delle società che devono insistere sino a quando questa specialità non avrà la forza propria per imporsi anche nel panorama mediatico nazionale ed internazionale.

Post covid, quando si è fatta una verifica delle squadre che avrebbero potuto riprendere subito la stagione, si sono fatte avanti solo Milan e Juventus. Facciamoci quindi due domandine e diamoci da soli la risposta; senza l’impegno di tutti non si arriva da nessuna parte.

Valentina Giacinti (Milan) e Aurora Galli (Juventus)
© Francesco Scaccianoce

questo non è proprio un romanzo che parla solo di sport; si parla di calcio, ma anche di resistenza, di coraggio, di storia, di amore, di politica, di sofferenza e di gioia.


Se non erro è la prima volta che ti cimenti con un tema sportivo, di solito scrivi su altre tematiche. Soddisfatta di essere entrata in questo particolare mondo?

Io credo che un giornalista moderno si possa sentire perfettamente a proprio agio sia quando approfondisce le tematiche per lui più ordinarie sia quando tocca temi nuovi e pur sempre stimolanti.

In fondo nello scrivere questo romanzo ho fatto in buona parte un lavoro di tipo giornalistico, andando a cercare i figli ed i nipoti delle protagoniste del libro, andando a cercare fonti ed approfondimenti negli archivi, facendomi guidare dalla pratica e dal metodo del cronista.

In ogni caso poi questo non è proprio un romanzo che parla solo di sport; si parla di calcio, ma anche di resistenza, di coraggio, di storia, di amore, di politica, di sofferenza e di gioia.

Quando ti vedremo nelle librerie italiane a presentare il libro?

Presto, prestissimo. Il 30 luglio il debutto ad Alghero. Poi da settembre a Milano ed in altre città. Una presentazione tradizionale, fisica e non virtuale, rispettosa di tutte le regole ma assolutamente tradizionale.

Ci saremo. Buon lavoro e buona vita.

 

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