In un Paese che celebra l’anticonformismo e distilla demagogia in posture di opposizione spesso sterile, difendere l’operato del Governo è un esercizio impopolare. Ma nella congiuntura storica più favorevole ai populisti, sostenere tesi impopolari – o impopuliste, come le descriveva Gentiloni – è anch’esso un atto di resistenza culturale.
Per cui: non credo di dire nulla di nuovo se affermo che essere degli umani sul Pianeta Terra nel 2020 è un gran casino. Per ovviare alla situazione peggiore – un gran numero di morti, anche se per fortuna il virus in termini percentuali, e purtroppo non assoluti, non uccide molto – ogni governo sta sperimentando le contromisure meno dolorose dal punto di vista economico per la maggior parte della popolazione, per cercare di appiattire questa benedetta curva mentre qualcuno nei laboratori si spera stia trovando il vaccino definitivo.
Personalmente appoggio dunque qualsiasi soluzione vada in questa direzione, e trovo sinceramente bizzarro che la misura che forse ci ha messo più d’accordo è stata anche la più radicale – il lockdown. Questo misura la grandezza della nostra mancanza di serenità, e la nostra attitudine al mal comune mezzo gaudio. Sopportiamo misure draconiane solo se dobbiamo scontarle tutti. È questo l’ultimo barlume di senso che è rimasto al termine “fratelli d’Italia”?
L’articolo più rilevante che ho letto da inizio pandemia, “The hammer and the dance”, si chiudeva con la proposta di stendere una lista di opzioni di chiusura, assegnando ad ognuna di esse un numero che misurasse il beneficio di quella misura, e il costo stimato sull’economia. Certo, non è un indicatore perfetto, come non lo è il PIL stesso, ma è un esempio dell’unico approccio che vedo possibile per uscirne facendoci meno male possibile: quello data-driven. Un’espressione che è molto più tecnica che politica, ma che reputo necessaria, umanizzandola per quanto il buon senso ci suggerisca di fare.
Il problema, oggi, è che questi dati mancano. Non solo perché raccoglierli è difficile, ma perché nessuno si è – e questo è davvero sorprendente – ancora posto il problema.
La speranza è che in realtà i dati esistano, ma siano secretati. Da fuori, quindi, possiamo solo stimare alcune variabili. Ad esempio: uno dei fattori che incide di più in assoluto sulla diffusione del virus è, purtroppo, l’apertura delle scuole, lo sappiamo. Il ritorno del virus a livello europeo è coinciso ovunque con la riapertura delle scuole: non tanto perché le scuole non siano sicure in sé, ma perché è tutto quello che ci sta intorno (trasporti in primis) che contribuisce alla diffusione del contagio come nessun’altra attività.
Eppure, badate bene, credo che tenere a scuola in presenza i nostri studenti sia un gesto davvero rivoluzionario, che dice molto della visione di lungo periodo di un Paese, e quanto abbia a cuore l’educazione dei suoi cittadini rispetto al suo PIL.
Per questo trovo sinceramente egoistica – eccola, un’altra cosa molto impopolare, e impopulista – la posizione di molti operatori culturali riguardo le chiusure dei luoghi della cultura, specialmente in un momento in cui diversi altri Paesi europei, come la Francia, vanno verso un lockdown totale. Voglio dire: certo che è grave non andare a teatro, ed è ancora più grave per chi un teatro o un cinema ce l’ha, e cerca di farlo andare eroicamente avanti anche nel 2020. Ma durante una pandemia è più grave se anche solo per 10 persone che sono andate a teatro ne abbiamo due in più in terapia intensiva, per l’effetto butterfly.
Non commento a tal proposito la grafica disgustosamente faziosa prodotta da AGIS che utilizza i dati di Immuni (sì, proprio quell’app che nessuno ha scaricato e di cui nessuno sta popolando il database) per sostenere che ci sarebbe stato solo un contagio su oltre 300mila spettatori: le speculazioni sui dati e le fake news mi sono intollerabili sia se provengono da Forza Nuova che da enti accreditati. Anzi, da questi ultimi le reputo ancora più odiose.
Certo, per il mio sentire, preferirei tenere aperto un teatro rispetto a una chiesa: ma comprendo che per chi è credente andare a messa, per quanto possa sembrarci assurdo dal nostro punto di osservazione laico, sia una necessità che sta a livelli molto più bassi della piramide di Maslow, subito sopra ai bisogni fisiologici, specialmente in un periodo così psicologicamente complesso.
Questo virus ci costringe a farci domande molto primitive ed elementari riguardo il senso della democrazia. Cosa viene prima? L’educazione dei nostri figli o i soldi che dobbiamo guadagnare per assicurare loro un futuro dignitoso? Salvare le vite o il lavoro? E ancora: a quanti posti di lavoro siamo disposti a rinunciare, per salvare una vita?
Altri Paesi, con un’identità più definita del nostro, hanno risposte più semplici: per gli USA, salvare il lavoro ha la priorità su quasi qualsiasi altra cosa, e per larghe fette della loro popolazione una vita senza lavoro non è una vita che vale la pena di essere vissuta – o che è possibile vivere. Nel nostro caso, al di là di quanto ci sia scritto nella costituzione, la risposta è meno netta. Per definirla, necessiteremmo di uno spirito di coesione molto maggiore di quello finora mostrato, per provare a remare tutti dalla stessa parte: i sacrifici di una classe da oggi a fine novembre speriamo saranno compensati da quelli di un’altra classe – o lobby che dir si voglia – per Natale. Fino a che speriamo non ci sia più bisogno di far sacrificare nessuno.
L’alternativa, non così lontana né nelle ipotesi di marzo, né nell’attualità di oggi, nel medio periodo ha un nome. Si chiama “guerra civile”.
FILIPPO LUBRANO