E(li's)booksAndromeda di Gianluca Morozzi. Recensione

Una storia di vendette e maternità come “sacrificio mortifero”.

Il libro di oggi è Andromeda di Gianluca Morozzi

Il libro

Bologna, 2019. Nel salone insonorizzato di una villa sui colli, c’è un uomo legato a una croce. Si chiama Dimitri. Di fronte a lui c’è Borg, come il tennista. Borg ha con sé una motosega e dei secchi di cemento. Quel che dice a Dimitri è semplice e terribile: “Io ti libererò senza farti niente, se solo ti ricorderai il mio vero nome. Pronuncialo, e non ti accadrà nulla. Altrimenti, ti farò a pezzi poco alla volta.” Per aiutare la memoria del terrorizzato Dimitri, l’uomo chiamato Borg comincia a raccontare. Gianluca Morozzi, con una lingua vivida, dà vita a una favola oscura di uomini e bestie, in cui lascia intravedere la dolorosa e feroce solitudine dell’esistenza nella Bologna dei colletti bianchi degli anni novanta.

La mia lettura

La prima cosa a cui ho pensato leggendo di Borg, il protagonista di Andromeda, è stata Arancia Meccanica. L’associazione di idee è legata esclusivamente all’immagine inquietante che mi sono fatta del protagonista che mette in atto la sua vendetta con tutte le sfumature di ambiguità morale del caso.

Una storia di vendetta doppia, la prima frutto della cattiveria adolescenziale che segue codici basati su immaginate promesse di fedeltà reciproca, la seconda reazione lucida alla prima, vendetta decantata, distillata, programmata per essere goduta.

Seguendo una serie di flashback concatenati ci facciamo un’idea di che tipo di cattivo sia Borg, la sua è una questione personale, è lucido e determinato, facendo del male riesce a realizzare una sua scelta, la risposta ad un sopruso.

Mi hai fatto una cosa orribile, qualcosa di così orribile da avermi devastato il corpo e la psiche, lo hai fatto trent’anni fa, ti ricordi, almeno, chi sono? O mi hai annientato l’esistenza per poi dimenticarmi per sempre?”

Borg si svela piano piano al lettore e alla sua vittima, ci racconta una Italia anni Ottanta con i fatti di cronaca che se avete più di 40 anni non farete fatica a ricordare, viene in mente l’Albinati dello Strega anche se Morozzi ha il dono della sintesi che manca del tutto all’insigne collega per cui non si perde in inutili elucubrazioni, riesce a riportarci indietro ai TG che raccontavano di Vermicino e di Piazza Fontana e il racconto si trasforma, ti scordi della motosega, delle mutilazioni a Dimitri che subisce senza scelta le violenze.

“Un atroce scherzo di sapore mitologico” cita Andrea Pazienza Morozzi a pagina 224 quando ci spiega l’origine della sua vendetta e credetemi, a quel punto smettete di averne paura, anzi, vi verrebbe voglia di incitarlo a fare ancora più male a Dimitri perché la vittima diventa carnefice, la sua cattiveria è umana.

L’atto violento a cui assistiamo è innestato sul terreno delle meschinità adolescenziali che riescono ad essere essenza di pura cattiveria, un gruppetto di stupidi ragazzini si sono sostituiti a Dio scegliendo di cambiare la vita a Borg e alla sua famiglia, una nefandezza che aveva generato morte.

Vendetta come riparazione del torto, non c’è compiacimento della violenza, c’è urgenza di giustizia che in questa storia non ha speranza di realizzarsi diversamente e la scelta di Morozzi è perfetta, è indirizzata dall’impatto sull’immaginario collettivo, il torto che Borg ha subito è terrificante e viene svelato con una semplicità che toglie il fiato, un colpo di scena inimmaginabile.

Merita una menzione speciale anche la figura della madre narcisista che trasmette ai figli il suo concetto di maternità come “sacrificio mortifero” (direbbe Racalcati), una madre “némirovskyana” vittima di una inquietudine mai paga, mi sono venuti in mente ad un certo punto, mentre leggevo, Arthur Fleck e sua madre Penny … che brividi!

Provare per credere.

 

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