La DAD non è il male assoluto: la DAD fatta come si sta facendo in Italia è il male assoluto. Ma si può migliorare, investendo sulla cinghia di trasmissione: gli insegnanti.
“Le indicazioni del MIUR sono chiare: tenete le lezioni come se foste in classe. Solo che in classe non ci siamo”. Fabrizio Venerandi, professore genovese tra i pionieri della letteratura elettronica, pensa che si stia perdendo una grande opportunità. “La didattica in digitale può essere diversa, si potrebbero usare strumenti di classe capovolta, o altri media come ad esempio una scrittura collettiva, in contemporanea, su un Google Doc condiviso. A me piace giocare, e personalmente sto proponendo agli studenti degli esperimenti didattici che usino anche i media con cui i giovani hanno più confidenza: ad esempio, chiedo loro di farmi una recensione di un libro o di un film come se fossero degli youtuber. A pensarci bene, potremmo anche pensare di non fare più le lezioni live: che senso ha legarci a un orario, ora?”.
La DAD (didattica a distanza), l’acronimo diventato in pochi mesi il più famoso d’Italia, offrirebbe l’occasione di svecchiare un’istituzione che non si ripensa veramente da troppo tempo. Un’occasione, però, che stiamo perdendo.
All’inizio questo era normale, perché la rapidità con cui la pandemia ci ha sorpreso non ci ha permesso di ragionare su nulla, e l’obiettivo era principalmente di dare continuità. Con questo obiettivo è nato a marzo, a velocità supersonica, il progetto “La Scuola Continua”, promosso dall’associazione dei Copernicani da un’intuizione della dottoressa Ilaria Capua, e resa possibile dalla piattaforma WeSchool. Davide Formica è membro del direttivo e uno dei promotori del gruppo che è riuscito a scaricare a terra quell’intuizione in tempi incredibili: “Il progetto è nato dieci giorni prima del lockdown, e grazie al network dei Copernicani e un’adesione spontanea che ci ha commosso ha coinvolto i principali player tecnologici nazionali e mondiali: Apple, Cisco, Google, IBM, TIM. In cinque giorni dal lancio avevamo 14mila docenti e un milione di studenti sulla piattaforma”.
Il progetto è terminato a luglio, perché l’urgenza emergenziale era alle spalle. In questi mesi, la scuola si è profusa in uno sforzo mirabile per dotarsi di alcuni strumenti di digitalizzazione di cui forse sarebbe stato necessario dotarsi qualche decennio fa – ma prendiamo il lato positivo della necessità, quando porta, anche se in ritardo, virtù. Lo sforzo, però, si è limitato al come, mentre nessuno ha provato a ragionare sul perché.
Marco De Rossi, giovanissimo CEO di WeSchool, una delle (ormai ex) startup più in vista del panorama imprenditoriale italiano, ci aiuta a fare il quadro: “È da 8 mesi che parliamo di scuola, e finalmente direi, ma non si parla mai di didattica. Il che è un po’ come se, per parlare della ristorazione, discutessimo solo di come si fa il servizio al tavolo. La DAD, per come la intendiamo in Italia oggi, è sostanzialmente una grande riunione su Zoom, televisiva” esordisce De Rossi. La tecnologia, già oggi, permetterebbe di proporre un’offerta ben più ambiziosa, ma il progresso, ormai è noto, non muove secondo i tempi della tecnologia, ma delle persone. “Su questo fronte siamo ancora molto indietro” constata De Rossi. Ricostruendo un Bignami dell’evoluzione della didattica digitale degli ultimi vent’anni, il giovane imprenditore comincia dal ciclo dell’e-learning: “Parliamo del periodo 1998-2010, quello che ha portato ai Mooc – massive online open courses, come il famoso Coursera, ndr. Dal 2010 si è cominciato poi a parlare di adaptive learning, ennesimo caso di sopravvalutazione dell’IA: per farlo, era necessario strutturare lo scibile in un albero con contenuti teorici, per poter poi interrogare le persone e, tramite tecniche di machine learning, proporre contenuti di teoria personalizzata. È quello che fa – benissimo – Duolingo, per intenderci. Piattaforme come Knewton e Renaissance Learning negli USA prendevano i dati dalle università e fornivano raccomandazioni sul percorso didattico. Questo trend si è però arenato perché la didattica era troppo indietro”. Le persone, dunque. “Chi ha fatto passi in avanti lo ha fatto facendo formazione ai docenti, come noi in WeSchool. L’innovazione, necessariamente, deve passare per loro. Ci sono d’altronde moltissime tecniche per fare una didattica digitale davvero ad altro valore aggiunto” spiega ancora De Rossi “ad esempio l’instructional design, metodologia per creare un percorso nel tempo per trasmettere dei contenuti. O il Teach-to-learn, dove sono i compagni a spiegare agli altri i contenuti; il debate, dove gli studenti vengono polarizzati su diverse posizioni che devono difendere dialetticamente. O ancora il Project learning, dove si impara attraverso la realizzazione di progetti. O la classe capovolta: faccio teoria da solo, quando voglio, magari su materiali suggeriti dall’insegnante (preferibilmente videolezioni), e poi in classe si lavora su un’attività collaborativa, dove l’insegnante può esercitare il suo ruolo di tutor al fianco degli studenti”.
Insomma, perché nessuno ha pensato che quello che è successo al lavoro con lo smart working potrebbe accadere anche alla scuola, con l’introduzione di uno “smart studying”? L’impronta ideologica che ha pensato, in piena rivoluzione industriale, la scuola come una struttura gerarchica, con un orario fisso che scimmiottava gli ingressi nelle fabbriche, ha davvero ancora senso, nel 2020? Non potrebbe essere un’ottima occasione per iniziare a responsabilizzare – e, quindi, a rispettare – anche gli studenti stessi? Il mondo che li aspetta fuori, d’altronde, è sempre meno quello dove si “timbra il cartellino” e sempre più uno dove è fondamentale relazionarsi con gli altri, pur mantenendo una propria identità e autonomia.
“Certo che potrebbe essere, sì” conferma De Rossi “e sia chiaro: tutti siamo fondamentalmente d’accordo che l’aula fisica sia indispensabile, non è questo il punto del dibattito. Ma la tecnologia potrebbe aiutare a espandere la didattica oltre i 55 minuti, e oltre il vecchio modello ora-di-lezione-e-poi-compiti-a-casa. Il digitale è perfetto per la collaborazione in momenti asincroni. In verità, il momento sincrono su Zoom diventa quasi marginale. È questo che deve chiarirsi. Anche perché il rischio più evidente è l’effetto rinculo: visto che la DAD sta andando male, si rischia in un futuro prossimo di tornare indietro con un effetto di repulsione totale, e di rimozione dovuta a pessimi ricordi”.
È chiaro dunque che, nel futuro, l’aumento dell’aula dipenderà dal trend dei rapporti uomo-macchina. Il rischio, semmai, secondo De Rossi, è che “in questa nuova fase si arrivi ad avere 3-4 enormi player sovrannazionali in area OCSE, con cui i governi avranno a che fare”.
Per fare breccia, ad ogni modo, la tecnologia deve essere davvero piegata al servizio della didattica, per allargarne spazi e tempi. Ma per farlo, c’è bisogno di una comunità – quella dei docenti – che sia disponibile ad accoglierla, che ne sia consapevole e sappia proporre di volta in volta lo strumento più adatto.
Perché si può anche pensare di registrare i contenuti in stile Masterclass, con video e audio impeccabili, creando dei “supermaestri” à la Alberto Manzi in versione digitale, ma il rammendo dell’ultimo miglio spetta sempre a loro, e alla loro umanissima sensibilità di insegnanti.
FILIPPO LUBRANO