Esce oggi Racconti a orologeria dello scrittore bosniaco Faruk Šehić , l’ho letto in anteprima per voi. Ecco la mia recensione.
Il libro
Questa raccolta di racconti ha come denominatore comune il trascorrere del tempo. Dal fronte alle macerie di una Sarajevo “per i morti e per i moribondi”, Racconti a orologeria vede il continuo alternarsi di nazioni e popoli, di storia e memoria. La lingua di Šehic misura ininterrottamente il tempo dell’uomo e il tempo delle stelle, il tempo della guerra e il tempo dell’inquietudine, il passato e il futuro, quello che ci sfugge e quello che abbiamo irrecuperabilmente consumato. La vita è un orologio, ma tra il martello della lirica e l’incudine della dura prosa, sembra suggerirci lo scrittore, non c’è spazio per alcuna redenzione.
La mia lettura
Tante volte si dice “un libro duro”, una “scrittura dura”, nel caso di Faruk Šehić mai espressione potrebbe essere più azzeccata e non in senso lato … Racconti a orologeria è una mappa di tutte le cicatrici psicologiche che l’autore si porta dentro dopo l’esperienza della guerra.
Quello che arriva forte è un senso di “ostranenie” per dirla con Iosif Brodskij, la scrittura di Faruk Šehić diventa dissidenza, resistenza:
“Era così frustrato perché non riusciva a farsi pagare l’impegno che ci metteva a scrivere del passato, del crimine che per legge era vietato nominare. Una delle nuove leggi della nostra società era di natura lessicale. Bisognava ripulire la lingua dalle parole sconvenienti, dai temi letterari arcaici. Bisognava andare avanti. Al contrario, andare indietro non era di moda. Lo sapeva, ma lui i suoi libri li doveva scrivere. Vale a dire, la sua verità letteraria bruciava come il piombo rovente sul martire medievale. ( Shape Shifter)
Le guerre jugoslave sono state sempre raccontate come guerre nate da un odio atavico: serbi, croati, musulmani, kosovari tutti pronti a difendere il proprio gruppo etnico, così abbiamo capito, forse perché ci è stato detto o per ignoranza, perché così abbiamo voluto intendere, in Racconti a orologeria Faruk Šehić mostra come si possa sopravvivere a tutto questo, qual è il trucco per non morire e quali le conseguenze della sopravvivenza.
“siamo giunti in un piccolo villaggio sotto il controllo degli autonomisti di Abdić. Subito dopo i sabotatori, ho trovato nella stalla i corpi morti di un nonno e un nipote vestiti da civili e allineati parallelamente. Entrambi avevano buchi da proiettile sulla fronte.[…] Il nonno indossava dei guanti di pelle da moto con dei buchi. Era vestito come un dandy.[…] volte i nostri comportamenti sono determinati dalle immagini dei film che si sono fissate nella nostra memoria. Ho perquisito il cadavere ispirandomi ai film che avevo visto, e la perquisizione era più simile a un saccheggio del morto che a una ricerca di armi. O forse si trattava di impulsi primordiali che ci portano a uccidere e a desiderare le proprietà altrui.[…] A volte, all’inizio dell’autunno, mi ricordo dei corpi del nonno e del nipote. (Il tempo passa)”
Un passato che rimorde, un presente e un futuro incerto, cosa sono questi racconti? Un resoconto straziante della fine di quegli equilibri che per settanta anni avevano permesso ad una popolazione eterogenea di convivere pacificamente.
Nei racconti di Faruk Šehić io ho trovato ardore, dolore, rassegnazione, desiderio di voltarsi a guardare altrove e sfuggire da quel senso del dovere che lo ha spinto a votarsi alla causa, a difendere la sua gente, la sua terra.
“Feliks mandava messaggi alla sua città natale, che si era smaterializzata durante i terribili crimini di guerra. Tuttavia, la città continua ad apparire reale a quelli che ci vivono ancora, chiusi nel voto del silenzio, insensibili alle pene altrui, nonostante l’alto numero di suicidi, il quale non dimostra l’innocenza di nessuno. […]Il voto di Feliks consisteva nel non tornare mai in quella città, nella quale durante gli anni Novanta sbocciavano campi di concentramento e crimini. E dove nemmeno oggi la vita è migliore. (La fiaba di ferro)”
Gli stati d’animo che affiorano da queste pagine variano, l’oscillazione è dal rassegnato alla rabbia furiosa, il linguaggio parimenti è spesso così diretto da diventare “materiale”, ruvido, ho avuto l’impressione che tale fosse l’urgenza di vomitare sul foglio ogni cosa che non sia stato a guardare più di tanto alla forma. Talvolta invece cambia registro e la voce diventa calda, è come vedere l’autore parlare tra sé e sé e ci regala pensieri il cui lirismo è commovente.
“[…]La mia missione inconsapevole è stata: sopravvivere, raccontare, scrivere. E i morti, e i feriti, e le cicatrici sul corpo, e quelle interiori che non si rimarginano col tempo. E i libri come un prezioso bottino di guerra. Mi vengono in mente alcuni punti di partenza: la dissoluzione della Jugoslavia, la guerra in Bosnia Erzegovina. Non si poteva avere di più dalla vita, né dalla morte. Ci siamo iscritti in prima elementare alla scuola dell’apocalisse e abbiamo continuato la nostra scolarizzazione.”
Dostoevskijana questa voce narrante …
“La Storia spesso è tonda come una lacrima. La scrivono gli sconfitti, per questo i nostri libri di storia sono densi di tristezza.”
Cita Bowie, Allen Ginsberg e Geo Bogza, Charles Bukowski, The Wachowskis, “Il canto d’amore di J. Alfred Prufrock” di T.S. Eliot, Harvey Keitel e Peter Gabriel.
Faruk Šehić aveva solo 22 anni, studiava Veterinaria all’Università di Zagabria quando tornò in Bosnia-Erzegovina per difendere la sua terra dall’attacco dei serbi prima e dei croati poi, fece parte del 5° Corpo dell’Esercito Bosniaco, guidò per tutta la durata della guerra un contingente di 130 uomini.
I suoi racconti sono assolutamente da leggere.
FARUK ŠEHIC´ – RACCONTI A OROLOGERIA
Il canto pre-apocalittico – Mimesis edizioni
traduzione di Elvira Mujčić
Pp 124 € 12,00