In quel momento si è inserito pienamente in questa ricerca di verità che c’era in Italia e che faceva capo a “Cristo si è fermato ad Eboli” di Carlo Levi. Io, però, non mi sentivo un neorealista, mi sentivo soltanto un realista, uno che dava conto di una determinata realtà, in un determinato paese siciliano.
(Leonardo Sciascia in riferimento a Le parrocchie di Regalpetra, dall’intervista al programma Binocolo, 1984)
Il 24 gennaio ricorre la Giornata Internazionale dell’Educazione, 16 giorni dopo l’anniversario della nascita di uno fra i più grandi scrittori italiani: Leonardo Sciascia.
Nato a Racalmuto l’8 gennaio 1921, l’autore crebbe fra questo comune dell’agrigentino e Caltanissetta (dove frequentò le scuole superiori), vedendo in pieno la miseria e la violenza a cui zolfatari e salinari erano sottoposti. In un’economia che dipendeva in parte dall’agricoltura, in gran parte dall’estrazione dello zolfo e del sale, le condizioni dei lavoratori erano a dir poco misere, costituendo l’humus delle “denunce” de Le parrocchie di Regalpetra, opera attraverso la quale il Maestro è riuscito a fornire uno spaccato della vita nella provincia siciliana, inserendo pure una biografia dei suoi primi 35 anni di vita.
Pubblicato da Laterza nel 1956, il romanzo rappresenta un piccolo gioiello in cui Sciascia descrive mirabilmente le condizioni economiche e sociali del contesto vissuto, soffermandosi sulle cause e sulle conseguenze dello sfruttamento e dell’indigenza delle classi subalterne. Regalpetra non esiste nella realtà, ma riassume le caratteristiche di Racalmuto e prende il nome anche da Petra, utilizzato circa 20 anni prima da Nino Savarese per indicare Enna.
Uno fra i pilastri fondamentali dell’opera è costituito dalle “Cronache scolastiche”, pubblicate dalla rivista “Nuovi argomenti” l’anno precedente e proprio gli studenti sono gli oggetti principali dell’analisi di Sciascia, osservati durante la sua carriera di insegnante fra gli anni ’40 e ’50.
Oltre al realismo, necessario e fondamentale per portare a galla le cause e gli effetti delle ingiustizie su migliaia di esseri umani costretti a sopravvivere più che a vivere, traspare in alcuni tratti un lirismo e la tenerezza di un giovane insegnante relegato a un ruolo d’ordine, perché tale era quello del maestro in classi di diseredati che spesso andavano a scuola più per la refezione che per imparare. Ma proprio qui sta la grandezza di Leonardo Sciascia, capace di illustrare e sviscerare il problema e non di dare semplicemente la colpa ai suoi ragazzi, la maggior parte dei quali erano forgiati a una “cattiveria” e un’ineducazione figlia della fame atavica e di una violenza sia simbolica che reale protrattasi su intere generazioni e famiglie, che nel loro immaginario vedevano non di rado nei maestri l’avamposto del potere che li obbligava a un’esistenza fatta di stenti e subordinazione, situazione (per alcuni versi attuale) per cui potevano scorgere un esempio positivo in un bandito come Salvatore Giuliano, piuttosto che in un carabiniere, che fino a qualche tempo prima rappresentava invece uno fra i pochi lavori sicuri più ambiti.