Ipse DixitTutt i passion che ghemm sconduu in del coeur

Il 5 gennaio di duecento anni fa moriva Carlo Porta, il più grande poeta dialettale milanese.

Il 5 gennaio di duecento anni fa moriva Carlo Porta, il più grande poeta dialettale milanese.

Figlio di Giuseppe e Violante Gottieri, nacque a Milano nel 1775, ultimo dei soli tre fratelli che sopravvissero all’infanzia tra gli otto messi al mondo dalla madre. Il padre ricopriva l’incarico di cassiere generale della tesoreria.

Studiò dai Barnabiti a Monza e nel loro Collegio estivo di Muggiò (edificio in parte scomparso nel 1890 per lasciare posto alla Parrocchiale dei SS. Pietro e Paolo) fino al 1792 e successivamente al Seminario di Milano. L’ambiente religioso gli garantì una buona formazione culturale, ma instillò in lui i germi di un anticlericalismo convinto e destinato a caratterizzare molte delle sue opere.

Nel 1796 l’arrivo dei Francesi fece perdere il posto al padre, convinto sostenitore del regime asburgico, e per Carlo venne trovato un lavoro a Venezia, dove restò fino al 1799 insieme a un fratello. Qui fece vita beata, sempre a corto di quattrini, sempre tenuto a stecchetto dal padre, sempre in lagnanze col fratello Gaspare. 

 Il padre non gli consentì di concludere gli studi, avviandolo forzatamente a una carriera nella pubblica amministrazione: nel 1804 venne assunto all’Ufficio del debito pubblico — dall’anno successivo noto come Monte Napoleone — per il quale lavorò tutta la vita.

Il 29 agosto 1806 sposa Vincenza Prevosti (1778 – 24 maggio 1860), figlia di un gioielliere milanese con bottega in via degli Orefici. Vincenza è già vedova, dopo un breve matrimonio con Raffaele Arauco, Ministro delle Finanze della Repubblica Cisalpina. Dal matrimonio nasceranno due figlie e due figli.

Nella sua casa di via Montenapoleone formò la cosiddetta “Camaretta”. La Milano culturale si riuniva lì, nelle stanze di quello che era e che sarebbe stato il più acuto, umanissimo poeta dialettale. Vi andavano tra gli altri i maggiori intellettuali del tempo, tra i quali Stendhal,  Foscolo, Manzoni, Grossi, Berchet, Visconti.

Porta visse tutta la sua breve vita in comunione con gli spiriti più aperti, in lunghe conversazioni serali, in meditazioni e in creazioni poetiche durante le lunghe ore di ufficio, spesso dietro uno sportello, osservatore attento della Milano che gli passava davanti, indagatore acuto, rievocatore saporito di un’umanità che soppesava, analizzava ma non giudicava, neppure quando apparteneva a quel clero così spesso protagonista della sua satira.

Porta vede il dialetto come un compiuto strumento di comunicazione di un’autonoma visione del mondo. Egli vi scopre in sostanza una nuova forma e un nuovo contenuto che lo inseriscono a pieno titolo nell’esperienza del romanticismo italiano ed europeo. Il suo nome diventa popolare nel 1812 con la pubblicazione delle Desgrazzi de Giovannin Bongee, il primo dei monologhi in cui si possono ravvisare i capolavori della poesia portiana. La miseria dell’uomo, aggravata da un cattivo ordinamento politico-sociale, trova in Porta un cantore acutissimo, i suoi personaggi, rappresentativi del popolo, diventano creature a tutto sbalzo per potenza realistica, comica, simbolo di una classe che soffre il sopruso, da cui è schiacciata, ma da cui non esce distrutta la sua umanità potente che è quella eternamente viva, aspra, eppur rasserenante del popolo. Giovannin Bongee è l’espressione di quella diffidenza verso il potente che è esperienza di una condizione materiale dove l’ingiustizia è immancabile. Egli è vittima di quegli ufficiali e di quei gendarmi francesi una volta salutati come liberatori, ma che non possono fare a meno di essere “quei prepotentoni dei frances” che spadroneggiano per Milano al pari della ronda dei “Crovatt” (si legga austriaci). Ancora pittura di un mondo in cui l’umile è dannato a soffrire e vivere l’amarezza della sua condizione di diseredato dalla sorte, dalla vita e dalla natura.

Così è della Ninetta del Verzee (1814), del Lament del Marchionn di gamb avert(1816), del Meneghin biroeu di ex monegh (1820), in cui il lamento dei vinti è raccolto dalla pietà dell’autore, mentre una satira a tutto tondo irride il potente e lo accusa per la trascuratezza che lo tiene lontano dall’uomo. Gioca intanto l’ironia, che lascia pur spazio a commossa commiserazione, su un clero che spesso appare come una grossa fetta tagliata via a sua volta dal popolo. È questo un capitolo importante della poesia di Porta. Ancora una volta egli non si sente di condannare tutto un mondo e non coinvolge tutto il clero nella sua satira. È la scarsa vocazione su cui egli irride e mette a fuoco l’avarizia, il peccato di gola, la sete di una vita godereccia, senza dimenticare che Napoleone aveva ridotto il basso clero a mendicare messe, pranzi in casa di nobili (quei nobili ch’egli mette egualmente alla berlina: si veda la figura della marchesa Paola Traversa, di Donna Fabia Fabbron de Fabrian), prebende, a lucrare su successioni con intrighi, artifici, malevolenze. Ne nascono odi straordinarie, si veda Fra Diodatt, On miracol, Fra Zenever (1813-14), One funeral (1817) più nota dal 1821 come Miserere (con salmi brontolati in alternanza ritmica di lamenti funebri e parole evocanti le ghiottonerie della mensa), La nomina del cappellan (1819), La guerra di pret (1820). Di pretesti caricaturali, satira, invenzione narrativa la poesia di Porta è ricchissima. Il suo è un mondo corposo, è il popolo pieno di sofferenza, ma con una voglia pazza di vivere più che di sopravvivere, perché dentro di sé porta una certezza, quella di essere migliore di quanto appare. L’ingiustizia gli fa tenere il capo chino, ma se un giorno riuscirà a buttare il potente nella polvere la sua risata esploderà come una liberazione e un canto alla vita.

La lapide di Carlo Porta, oggi conservata nela cripta della chiesa di San Gregorio

A soli quarantacinque anni e nel pieno della fama, morì a Milano nella sua casa di via Montenapoleone 2,  il 5 gennaio 1821 per un attacco di gotta.

Un breve discorso commemorativo di Tommaso Grossi accompagnò, due giorni dopo, la cerimonia funebre.

Fu sepolto a San Gregorio fuori Porta Orientale, ma la sua tomba andò dispersa. Nella Cripta della Chiesa di San Gregorio Magno in Milano è custodita la lapide funebre che era posta sul muro di cinta del cimitero di San Gregorio al Lazzaretto.

Il Cimitero di San Gregorio, detto anche Foppone di San Gregorio o anche di Porta Orientale, era uno dei cinque cimiteri cittadini, collocato fuori l’attuale Porta Venezia a Milano ed in seguito soppresso con l’apertura del Monumentale. Doveva il nome all’attigua chiesa di San Gregorio che tuttora sorge sull’omonima via, non distante dal corso Buenos Aires.

Aveva un perimetro a forma di pentagono irregolare e si estendeva a nord-ovest del Lazzaretto di Milano. 

Il cimitero viene inoltre menzionato nel capitolo XXXI de I promessi sposi di Alessandro Manzoni, dove l’autore rammenta un allora tradizionale omaggio dei cittadini milanesi ai morti di peste in occasione di una delle feste della Pentecoste.

In sua memoria l’amico Tommaso Grossi compose in milanese la poesia In morte di Carlo Porta.

Alessandro Manzoni dedicò al Porta i soli quattro versi in milanese della sua produzione poetica:

On badee ch’el voeur fà de sapientôn

el se toeu subet via per on badee;

ma on omm de coo ch’el voeur parè minciôn 

El se mett anca luu in d’on bell cuntee!


 

Un sempliciotto che vuole fare il sapientone

si tradisce subito per il sempliciotto che è;

ma un uomo dalla testa fina che vuole sembrare minchione

si mette anche lui in un bel pasticcio!


 

Oggi, a distanza di duecento anni dalla morte, Carlo Porta – massone libero muratore – viene ricordato anche dal Grande Oriente d’Italia con le parole del Presidente dei Maestri Venerabili della Lombardia, Tonino Salsone.

Sono trascorsi esattamente due secoli dalla morte del poeta Carlo Porta, “le charmant Carline” come lo defini’ il suo amico scrittore francese Stendhal. 

Personaggio geniale, controcorrente quando esserlo non era proprio facile, non era solo un poeta dialettale, ma un artista completo con il cuore rivolto verso il popolo. Libero muratore con il sogno di una Lombardia libera, quando a quei tempi a contendersela vi erano due padroni: i francesi e gli austriaci. E se il cuore del massone non ha padroni anche il suo pensiero non puo’ non abbracciare chi e’ soffocato dalla tirannia e dal bisogno. 

Tra i fondatori del Teatro Patriottico, oggi dei Filodrammatici, i milanesi lo hanno ricordato con un monumento bronzeo al Verzee, l’antico mercato delle erbe accanto a piazza Santo Stefano che per lui è stato luogo di ispirazione, una statua che non è su un alto piedistallo come quella di altri uomini di cultura ma quasi ad altezza d’uomo, a dare ai passanti la sensazione di essere osservati nel profondo da quell’uomo la cui poesia cantava “tutt i passion che ghemm  sconduu in del coeur”.

1862

Milano dedicò a Carlo Porta nel 1862 un monumento posizionato su un isolotto nel laghetto dei Giardini Pubblici (oggi Giardini Indro Montanelli); la statua fu però distrutta dai bombardamenti del 1943.

La statua oggi esistente al Verziere è una riproduzione in bronzo della statua originaria del Puttinati, basata sui suoi disegni. Fu realizzata nel 1966 dallo scultore modenese Ivo Soli.

Sulla base è presente l’iscrizione “A / CARLO PORTA / I MILANESI / 1966”.

1966

BIBLIOGRAFIA

F. Portinari, Strumenti del realismo portiano, Torino, 1971; G. Bezzola, Le charmant Carline, Milano, 1972; D. Isella, Ritratto dal vero di Carlo Porta, Milano, 1973; M. T. Lanza, Porta e il Belli, Bari, 1985; V. Gasparini, Saggio di traduzione in versi di alcuni capolavori di Carlo Porta, Milano, 1991.

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