MillennialsCosa ho imparato nei primi mesi da startupper

(da Afrizap)

Intorno al mondo delle startup ci sono stati recentemente alcuni anni di hype, in cui autoproclamati opinion leader hanno seminato idee banali e una fiducia acritica nel mondo dell’innovazione, le cui conseguenze sono il culto religioso di Elon Musk e alcune bolle finanziarie pronte a esplodere. Chi è sopravvissuto a quel momento, continuando a fare il proprio lavoro con serietà e dedizione, potrebbe finalmente trasformare in realtà i sogni nati dopo aver visto The Social Network: l’attivismo dello Stato è diventato davvero importante, grazie a Cassa Depositi e Prestiti e alla nuovissima iniziativa Enea Tech della Fondazione Enea. Dopo un primo tentativo startupparo nei ritagli di tempo, di cui conservo bei ricordi di aperitivi con un sacco di gente simpatica, ho deciso di fare sul serio, da ottobre 2020 ho lasciato il mio lavoro come dipendente. Non volendo auto-promuovere il mio business, basta googlare, preferisco raccontare alcuni aspetti più umani e culturali, perché mi pare di sperimentare molte cose interessanti.

Secondo la vulgata della sinistra più radicale, attraverso la mitopoiesi delle startup si cerca di promuovere una visione del capitalismo più buona, con un’azione di comunicazione e di social washing: come fare a dimenticare lo sfruttamento (per lo più, auto-sfruttamento) e, soprattutto, a non capire che le startup di oggi, tanto carine e innovative, diventano i Moloch di domani? D’altronde, le storie di Google e Facebook appaiono abbastanza paradigmatiche: bei messaggi, ma tanta crudele ferocia quando si tratta di rubare dati o eliminare concorrenti. Che dire, platonicamente molti commentatori sono vittime dell’imitazione di un’imitazione: parlare di quello che scrivono sui libri professori universitari ha la stessa valenza epistemologica di effettuare le previsioni meteorologiche misurando la temperatura dell’aria che esaliamo. Non vorrei nemmeno essere troppo vichiano, ma, a volte, sarebbe anche utile sperimentare i fenomeni di cui si discute – e se non si può, ascoltare testimonianze.

Da metà ottobre 2020, la mia startup è accelerata all’interno di un’iniziativa globale di IBM e Village Capital, a cui partecipano startup di mezzo mondo: dall’Australia agli States, passando per Africa ed Europa. Esperienza bella, intensa, soprattutto per uno che ha imparato l’inglese dopo averci litigato per una vita, e molto illuminante. Così, ho deciso di raccontare che cosa mi sta insegnando.

 

Il villaggio globale è realtà

Ve lo hanno detto in tanti, con largo anticipo, ma fare business con mezzo mondo, partendo da un appartamento semicentrale a Milano, armati di buona volontà e un po’ di esperienza, è tutto fuorché scontato. Sappiamo tutti che con Zoom possiamo chiacchierare contemporaneamente con decine di persone sparse su più fusi orari, già meno noto è il portale F6S, che permette di proporre il proprio progetto ad acceleratori di Singapore, UAE, Lussemburgo, Finlandia. Con Linkedin si conoscono tanti potenziali partner, e ho sempre incontrato un atteggiamento aperto quando ho contattato advisor, mentor, o startupper come me.  

Il mondo globale delle startup è un viatico fortissimo dell’antirazzismo; gli affari vanno oltre il colore della pelle e le reciproche diffidenze “il denaro è il sistema di mutua fiducia più universale e più efficiente che sia mai stato concepito” scrive Yuval Noah Harari, ma quello che sto sperimentando mi sembra che vada oltre la semplice avidità. Il piacere di incontrare persone brillanti, appassionate, che si dedicano a problemi estremamente complessi è tutto intellettuale. E non posso non osservare un’altra conseguenza di muoversi in un ambiente così stressante e competitivo: si tende a condividere senza filtri la propria umanità, ci si leva alcune sovrastrutture per sentirsi più leggeri.

Finora ho conosciuto ragazzi africani che cercano di inventare business per migliorare la sanità dei propri paesi, inglesi che si trasferiscono a Singapore per approfittare di nuovi mercati in crescita, migranti che inseguono progetti e speranze ovunque si presentino. L’etnia non ha importanza, conta la voglia di mettersi in discussione. Idea sull’Italia? Io proverei a dare qualche chance in più ai tanti africani che arrivano, riconoscendo i loro titoli di studio, aiutandoli a inserirsi più rapidamente nel nostro tessuto economico, dando loro più autonomia. 

 

Una sfida geopolitica: riprendere, da leader, l’apertura dell’Europa all’Africa

L’Africa offre potenzialità enormi: una popolazione giovane, una crescente penetrazione di smartphone e connettività, risorse naturali e ricchezza. L’Italia, nonostante gli errori di un colonialismo brutale, ha ancora una fama tutto sommato decente in buona parte dell’enorme continente. Se fossimo capaci di ragionare più di import-export, attrazione e formazione di talenti, e meno di clandestini, vedremmo una bella crescita della nostra bilancia commerciale e dei nostri vicini oltre il Mediterraneo.

 

La sfida mentale: l’impresa come problem solving

Ragionare sotto vincoli brutali come il budget, meglio se fatto di propri soldi, o di amici, spinge a perfezionare la propria capacità decisionale, a eliminare ciò che è ridondante, a strutturare processi mentali che cercano rapidamente dati, ne stimano l’affidabilità e utilità rispetto al contesto, e vengono poi rapidamente elaborati per una soluzione. Si usano più spesso del solito stime, euristiche, perché quando ci si muove nell’ignoto è necessario imparare a gestire l’incertezza – anche con qualche trucco statistico e probabilistico.

Tutto il contrario del ragionamento che si impara in accademia, che insegue il rigore formale, l’abbondanza di fonti ricercate ossessivamente, e che costruisce meravigliosi modelli con poca utilità pratica. Posto che ogni stile di pensiero ha i suoi vantaggi, a seconda del contesto, trovo utile insegnare a ragionare con un efficiente pragmatismo: per fare un piano vaccinale, meglio un imprenditore di un giurista, per esempio.

 

Non esistono autorità predefinite

Nel percorso dentro Village Capital lavoriamo con mentor e in gruppi tra pari, dove presentiamo la nostra startup e riceviamo consigli e critiche. Si impara da tutti, se si sa ascoltare. Chi si occupa di innovazione difficilmente conquista delle posizioni di autorevolezza definitive: la rapidità con cui evolvono campi come la blockchain, l’identità digitale, la crittografia quantistica, l’intelligenza artificiale richiede un aggiornamento costante e un atteggiamento che mescola umiltà e appassionata curiosità per essere sempre on the edge.

 

Uno sguardo alla scuola: l’impresa per imparare a pensare

Altro pregiudizio che si accompagna ai programmi di imprenditoria nelle scuole tende a mettere in netto contrasto cultura (gratuita) e impresa (vil denaro); la cultura è bella perché consente un piacere disinteressato, studiare economia aziendale invece corrisponde a impoverire la propria anima. Ora, è vero che da quando sono imprenditore fatico a leggere tanto quanto prima, perché sono più stanco, ho poco tempo libero e leggo molto per rimanere aggiornato sul mio settore ma, al contempo, non mi sento trasformato in un barbaro.

D’altronde sarebbe difficile sostenere che tutti gli imprenditori siano dei barbari, visto che una discreta fetta di essi partecipa alla creazione di una nuova realtà: vi sono imprese che stanno modificando il modo in cui le persone si conoscono e interagiscono, in cui ci si nutre e ci si muove, in cui si ibridano digitale e analogico. Modificano la percezione del tempo, dell’amicizia, perfino delle relazioni amorose: i siti e le app di incontri aumentano la possibilità di incontrare persone fuori dal proprio ambiente e portano a un maggiore numero di coppie miste.

I ragazzi delle superiori hanno molto da imparare da progetti di impresa realizzati durante le ore scolastiche, purché siano fatti non come simulazione, ma con l’obiettivo di generare qualcosa di tangibile e di valore. Si potrebbe dare vita a una sfida a livello nazionale, con soglie di selezione che consentono, se superate, di disporre di un budget più ampio, in modo da investire cifre limitate, alcuni milioni all’anno, e stimolare, al contempo, della sana competizione tra le migliori classi italiane. Per rendere tutto più interessante, si potrebbero accoppiare casualmente le classi, o le scuole, e favorire la conoscenza reciproca proprio mentre si deve fare qualcosa insieme: si impara rapidamente a negoziare quando ci sono delle risorse limitate che vanno investite per raggiungere un obiettivo ben preciso. Se poi mi fosse permesso di sognare un po’, dovremmo batterci affinché le collaborazioni andassero oltre confine: prima in Europa, poi in altri continenti. Abbiamo passato quasi un anno di didattica a distanza, tramite i sistemi di videoconferenza è possibile organizzare riunioni tra classi sparse per il mondo. Così i vostri figli potrebbero trovarsi a collaborare con Ibrahim, Adnan, Hu, parlando in inglese. Un modo efficace per imparare bene la lingua franca e per allargare la propria visione oltre gli stereotipi.

 

ANDREA DANIELLI