Factory ItaliaPerché la transizione ecologica è una grande questione di politica internazionale

Stati Uniti, Cina, Unione europea: le potenze globali sono alle prese con le sfide della transizione ecologica. La COP 26 rivelerà le ambizioni della comunità internazionale e se sarà possibile conseguire l'obiettivo della neutralità climatica

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Credit: Pixabay

Se una cosa è certa, è che gli obiettivi di lotta al cambiamento climatico non potranno essere raggiunti senza un impegno robusto e condiviso da parte della comunità internazionale. Basta dare un’occhiata a come si compone la torta delle emissioni globali di CO2 per rendersene conto. È la Cina di gran lunga il primo Stato per emissioni di diossido carbonio, con una percentuale superiore al 29% del totale. Seguono gli Stati Uniti, con una quota inferiore alla metà di quella cinese (pari al 14,2%) e la verde Unione europea (8,3%), destinata ad essere superata in breve tempo dall’India (che oggi emette quasi il 7% della CO2 al mondo).

Appare chiaro, pertanto, come i sempre più ambiziosi target ambientali che si sta dando l’Unione europea, se da una parte costituiscono un’imponente sfida per collocare pienamente i sistemi economici ed energetici sul sentiero della neutralità climatica, rivedendo profondamente modelli di produzione e consumo, dall’altra vanno contribuendo in misura sempre più ridotta agli obiettivi di contenimento della crescita delle temperature globali come previsti dall’Accordo di Parigi.

Esemplificando, da mesi le Istituzioni europee hanno avviato una discussione sulla percentuale di riduzione delle emissioni da raggiungere entro il 2030: secondo la proposta della Commissione, condivisa anche dal Consiglio, l’asticella dovrebbe essere posta al 55% netto, mentre per il Parlamento l’obiettivo da raggiungere sarebbe di 5 punti percentuali più alto (è oggetto di dibattito anche la possibilità che il taglio sia netto o assoluto). Tuttavia, la scelta tra le due ipotesi comporterà una differenza per il totale globale delle emissioni di CO2 molto contenuta, nell’ordine del mezzo punto percentuale circa.

Ben altro dovrà essere il taglio a cui sottoporre le emissioni di gas climalteranti nei prossimi decenni per prevenire la catastrofe climatica. Secondo gli scenari dell’Agenzia Internazionale dell’Energia (IEA), funzionali a conseguire gli obiettivi di Parigi, al 2050 la CO2 emessa dovrebbe ridursi a meno di un terzo rispetto ai livelli del 2019, per poi arrivare allo zero netto al 2070. Questo sentiero di decarbonizzazione può essere perseguito soltanto a condizioni molto stringenti. Gli Stati Uniti, che hanno tenuto le emissioni pressoché stabili negli ultimi 30 anni e rappresentano lo Stato con il più elevato livello di emissioni pro-capite, sono tenuti a ridurle a ritmi medi annuali consistenti, così come l’Unione europea, il Giappone e la Cina, che oggi mostra l’intensità di carbonio dei propri consumi energetici più elevata al mondo. Dai Paesi emergenti, ci si attende che, seppure in misura molto più limitata, diminuiscano anch’essi annualmente le proprie emissioni. Risultato tuttavia non scontato considerato che la domanda di energia in quelle aree del mondo (dove spesso si ha un accesso all’elettricità nullo o limitato) è destinata a crescere in maniera significativa.

Da parte statunitense, una notizia cruciale è rappresentata dall’avvicendamento alla Casa Bianca. Uno dei temi su cui dovrebbe essere più marcata la discontinuità segnata dal passaggio di consegne tra Donald Trump e Joe Biden riguarda, infatti, le politiche energetiche e ambientali. La presidenza uscente, anche tramite le agenzie governative, come riportato dal Climate Deregulation Tracker attivato dal Sabin Center for Climate Change Law presso la Columbia Law School, ha assunto 164 provvedimenti di allentamento delle misure contro il cambiamento climatico, considerate eccessivamente onerose per l’industria dei combustibili fossili. In generale, l’amministrazione Trump si è contraddistinta negativamente rispetto a una sensibilità per la tutela dell’ambiente crescente a livello internazionale e che vede sempre più governi adottare politiche di sviluppo sostenibile e imprese attivare investimenti in tecnologie, prodotti e servizi green.

Le prime mosse di Biden e l’enfasi posta sulla transizione energetica nel piano di stimoli da 1.900 miliardi di dollari che spingerà la ripresa americana, oltre a possibili nuovi impegni sul fronte climatico e della finanza verde, costituiscono senz’altro segnali positivi. Su tutto, ha grande valore, innanzitutto simbolico, la scelta di far rientrare gli Stati Uniti negli Accordi di Parigi. La decisione di Trump di tirare fuori gli Usa dall’intesa del 2015 ne azzoppava inevitabilmente la credibilità agli occhi del consesso internazionale. A rilanciare il protagonismo statunitense nella lotta al cambiamento climatico sulla scena internazionale può contribuire sicuramente la nomina da parte di Biden a inviato speciale del presidente per il clima di una personalità politica di primo piano come John Kerry. Il candidato alle presidenziali del 2004 è stato di recente ospite di Ursula Von der Leyen e Frans Timmermans a Bruxelles dove ha pronunciato parole molto chiare sulla necessità di rafforzare l’impegno globale per il clima: “È importante allearci perché nessun Paese può risolvere la crisi da solo, siamo tutti coinvolti e abbiamo bisogno del coinvolgimento non solo dei governi, ma anche della società civile e del settore privato“.

Da parte cinese perviene un quadro in chiaroscuro, con le contraddizioni proprie di un Paese che, ad esempio, risponde per più della metà del consumo globale di carbone e, allo stesso tempo, per la stessa percentuale di nuova capacità eolica installata al mondo. Nelle prime settimane di marzo il Congresso Nazionale del Popolo ha approvato il quattordicesimo piano quinquennale. La parola “energia” vi ricorre ben 59 volte. Si fissano un obiettivo di contrazione del consumo di energia in rapporto al Pil del 13,5% entro il 2025 e di riduzione alle emissioni di CO2 per unità di PIL del 18% entro il 2030. Viene contemplato un target non vincolante di aumento della quota non fossile nei consumi totali di energia di circa il 20% al 2025 (rispetto al 15,8% del 2020). Gli impegni cinesi hanno sollevato discussioni sul percorso di decarbonizzazione della Cina, che recentemente ha anche introdotto un proprio sistema pilota di cap and trade, e sulla possibilità effettiva di raggiungere la neutralità climatica entro il 2060, come annunciato da Xi Jinping. D’altra parte, il Gigante asiatico viene da decenni di importanti traguardi superati.

L’Unione europea, in conclusione, sta procedendo nel processo di disaccoppiamento tra crescita economica ed emissioni inquinanti. Tra il 2010 e il 2018, ad esempio, se il Pil aggregato è aumentato del 13%, le emissioni sono diminuite di una percentuale molto simile. Nel Vecchio Continente, produrre di più significa sempre meno inquinare di più. L’European Green Deal, con i suoi obiettivi climatici e l’ampio novero di strategie e piani di azione (industriali, della mobilità, dei mercati, della finanza sostenibile, delle nuove tecnologie, del comparto residenziale e altro ancora), costituisce un grande progetto di trasformazione per l’Europa che va colto a fondo. La COP 26 di Glasgow, organizzata in partnership tra Italia e Regno Unito (che hanno parallelamente le presidenze di G20 e G7) rappresenterà, a sei anni da Parigi, un appuntamento fondamentale per comprendere a quale livello di ambizione si collocheranno le politiche globali della transizione verde.

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