MillennialsDove sbaglia, e dove ha ragione, Barilla

A partire dalla sua intervista su La Stampa Guido Barilla è stato colpito da una pioggia di critiche, sintetizzabili in due frasi: “facile per te, che avevi i soldi” e “il reddito di cittadinanza vi impedisce di sfruttare i lavoratori”. Non mi occuperei della prima, sarà il CV di Barilla a scagionarlo o meno, mentre mi interessa analizzare il secondo argomento. Da un punto di vista di teoria economica, sarebbe forse più efficace un salario minimo, per ottenere lo stesso risultato di ridurre i margini di sfruttamento; il reddito di cittadinanza dovrebbe rimanere una soluzione temporanea, in grado di garantire serenità a chi lo percepisce, mentre cerca un nuovo lavoro o si sottopone a formazione professionale. Se invece parliamo di reddito universale, non è semplice trovare il punto di equilibrio in grado di non disincentivare eccessivamente il lavoro, ma, volenti o nolenti, il tema sarà sempre più presente nel panorama politico dei prossimi decenni: perché il lavoro si polarizzerà tra pochi posti molto produttivi e milioni scarsamente produttivi. 

Ma proprio questo ultimo scenario mi permette di dire perché Guido Barilla ha una parte di ragione nella sua boutade: “rivolgo un appello ai ragazzi: non sedetevi su facili situazioni, abbiate la forza di rinunciare ai sussidi facili e mettetevi in gioco. Entrate nel mercato del lavoro, c’è bisogno di tutti e specialmente di voi”. 

Chi critica questo appello temo non sia occupato nei settori di frontiera: probabilmente ha un posto fisso pubblico o privato di tipo amministrativo. Nulla di male, ogni attività è importante, ma sarebbe anche utile avere più chiaro il proprio contesto, dove si colloca rispetto al resto del mondo (geografico ed economico) e quali dinamiche segue. I dipendenti pubblici continuano a vivere di “pratiche”, che siano faldoni o file non cambia, di orari fissi e ruoli gerarchici, oggi, nel 2021, come nel 1921. Non è per pigrizia ma perché, correttamente, la burocrazia è costruita per non creare eccessive disparità di applicazione sul territorio nazionale: è quindi fortemente strutturata, il lavoro segue indicazioni precise. Per diventare un dipendente pubblico mediamente produttivo bastano pochi mesi di formazione sul campo. Per diventare impiegato amministrativo o operaio, la formazione è pure solitamente rapida. 

Tutto ciò per dire cosa? Se la curva di apprendimento è molto ripida (ossia, si imparano in fretta i concetti che servono), non è necessario avere a che fare con persone estremamente motivate. Si auto-motivano tramite una buona padronanza del proprio lavoro, oltre che per altri incentivi (stipendio, orari comodi ecc). Pertanto, arrivando al reddito di cittadinanza e ai sussidi, è verosimile che una persona rimasta ferma qualche mese, messa in un lavoro dipendente ripartito in pratiche, sia in grado di padroneggiarlo in tempi ragionevoli. 

Diverso è il discorso per chi lavora nei settori di frontiera: biotecnologie, health tech, finanza e suoi derivati tecnologici (fintech, regtech, insurtech), spazio, energia, web e blockchain, cybersecurity. Sono campi dove avvengono scoperte che rimettono tutto in discussione, c’è una grande competizione internazionale, occorre essere costantemente aggiornati. 

Non solo: la curva di apprendimento è molto bassa, servono anni per capire davvero come funziona un distributed ledger e come programmarlo, e quindi è richiesta una bella motivazione, per non scoraggiarsi di fronte ai problemi che si incontrano all’inizio. 

Aggiungiamo, inoltre, un secondo livello di complessità: il meta-apprendimento. Chi lavora in ambiti di frontiera deve essere in grado di imparare continuamente, che significa capire dove informarsi, di chi fidarsi, come confrontarsi con altri esperti. Chi apprende oggi a programmare vive in community che consentono di ridurre il rischio di imparare linguaggi inutili, e facilita la condivisione di dubbi e risposte. Nella società di oggi imparare è un mestiere sociale, spesso transnazionale, che, pertanto, favorisce chi ha migliori capacità relazionali, chi è in grado di contribuire umilmente alla crescita di tutti e, al contempo, di chiedere le cose giuste al momento giusto. 

Stare fermi alcuni mesi potrebbe avere impatti negativi: nelle competenze, dato che le conoscenze aumentano incessantemente e nelle soft skill (che più si usano, più si affinano). E allora sì, ha ragione Barilla: di fronte al rischio di rimanere fuori, per sempre, dai settori più stimolanti intellettualmente, conviene buttarsi e tenersi allenati. Meglio farsi qualche mese di stage sottopagato in una startup, dove però si impara molto, rispetto a prendere la stessa cifra stando a casa. Nel XXI secolo, per rimanere un’economia competitiva, è necessario avere campioni nazionali nei settori di frontiera, anche perché sono quelli che generano più ricchezza, essendo estremamente produttivi.

Il grafico qui sotto, tratto dall’Economist, è impietoso: 

Non c’è il tempo di commentare, di certo il fatto che la società statunitense sia in grado di costruire società competitive ha qualcosa a che fare con il suo dinamismo, forse eccessivo, e con la capacità di attirare talenti da tutto il mondo. Da italiano, preferisco che la nostra nazione non diventi un enorme residence di lusso per i ricchi asiatici: voglio vedere le nostre aziende competere con i migliori (anche asiatici). L’unico modo per rimanere al passo è avere capitale umano formato. Politicamente, dobbiamo ammettere che i percorsi di formazione tradizionali non sono più sufficienti, ma servono forme ibride e, soprattutto, persone motivate in grado di affrontare domini della conoscenza specialistica sempre più complessi e ostici. 

Chi ci segue sa bene che non abbiamo risparmiato critiche a una società gerontocratica e a “boomer” incapaci di lasciare la poltrona a giovani più preparati. Ma oggi, permetteci di dire che anche i giovani devono fare la loro parte, lottando per un futuro di lavori difficili, appaganti e ben retribuiti. 

ANDREA DANIELLI

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