In questo momento in cui il Giappone e la sua letteratura godono di una grande attenzione, bisogna iniziare a fare dei distinguo, soprattutto se si tratta di scrittori contemporanei, e di lettori. Ci sono quelli che amano descrivere il Giappone di Kyoto e dei ciliegi in fiore, poi ci sono gli altri, quelli che si accorgono che i fiori di ciliegio durano una settimana e i cui petali, dopo essere diventati una nuvola rosa che colora le strade e le case, cadono a terra e, calpestati, diventano poltiglia.
Yū Miri, scrittrice giapponese di origini coreane, appartiene a questa seconda categoria. Alla categoria degli scrittori per i quali scrivere significa usare la penna in modo scomodo, per raccontare ciò che non si vuole vedere, o meglio, che si fa finta di non vedere. Non si tratta di racconti a stampo politico, ma di storie che puntano l’occhio e danno voce a coloro di cui nessuno parla perché non si adattano all’immagine edulcorata che si ha del Giappone. Già con Il Paese dei suicidi (Atmosphere Libri 2020), Yū Miri, considerata una delle voci più importanti della letteratura giapponese contemporanea, aveva evidenziato la sua vena poetica, una penna leggera e soave, capace di descrivere le situazioni più dure, i pensieri più scabrosi. La morte, il grande tabù dei nostri tempi, entra sempre prorompente nella sua narrazione, e Tokyo-Stazione Ueno non fa eccezione.
“La morte ci separa da alcune cose e la vita da altre, la vita ci avvicina ad alcune cose e la morte ad altre. Pioggia, pioggia, pioggia, pioggia…” (Tokyo – Stazione Ueno)
Con Tokyo-Stazione Ueno, storia di un senzatetto della stazione di Ueno, Yū Miri si è aggiudicata il prestigioso “National Book Award” per la letteratura straniera e recensioni entusiaste sono apparse sul New York Times, Guardian e il Washington Post. In Italia, se ne è forse parlato troppo poco, anche se questo è un libro che varrebbe la pena di leggere se ci interessa davvero capire qualcosa del Giappone. La storia di Kazu, il protagonista, si intreccia con quella del suo paese e della famiglia imperiale, con la quale condivide il giorno di nascita del figlio. Nonostante questo, solo a metà libro si scoprirà la vera natura di Kazu e il motivo che lo ha portato a rifugiarsi nel parco di Ueno. È forse questa la parte più interessante: la descrizione della vita dei senzatetto, i piccoli gesti di intimità, la solidarietà, le attività per sbarcare il lunario. Le varie e svariate motivazioni che portano persone a scomparire. In Giappone, d’altronde, si parla di “evaporati”: persone che svaniscono nel nulla senza lasciare traccia, da un giorno all’altro, investiti da problemi economici o morali.
Ricordo la prima volta che vidi un senzatetto alla stazione di Shinjuku ed il mio sconcerto a quella vista. Erano gli anni Novanta e ce ne erano ancora pochi in giro. Il Giappone era un paese ricco e all’avanguardia, una potenza mondiale con un tasso di disoccupazione bassissimo nel quale la povertà non era contemplata. I senzatetto di Shinjuku vivevano in scatole di cartone (e forse alcuni ci vivono ancora oggi) e ricordo di aver pensato se Abe Kobo non si fosse ispirato proprio a loro per scrivere uno dei suoi capolavori. Ricordo però che già allora, o comunque negli anni a seguire, ogni tanto mi giungeva voce che i senzatetto di Shinjuku erano stati sfollati, spostati, allontanati. Quando si passava di lì, di tanto in tanto, scomparivano insieme alle loro scatole, e poi, come per magia, riapparivano: mi sono sempre chiesta il perché e oggi, leggendo il libro di Yū Miri, sono forse riuscita a dare una risposta.