L’economia italiana deve cambiare organizzazione produttiva. Il digitale deve stravolgere la politica economica delle imprese per agevolare quel cambiamento che nasce dalla pandemia del Coronavirus. Con l’emergenza sanitaria abbiamo compreso l’importanza fondamentale del digitale e della tecnologia, quindi dobbiamo proseguire senza sosta nella strada dell’innovazione. Questo concetto si rafforza con il documento sulle aziende italiane realizzato dall’ISTAT: “Rapporto sul benessere equo e sostenibile (BES 2021)”. Ed è proprio in questa fotografia economica che si palesa un mondo dell’impresa italiana ancora distante dalle opportunità offerte dal web. «La quota di imprese italiane – secondo la ricerca dell’Istituto nazionale di statistica – con almeno dieci addetti che nell’anno precedente hanno effettuato vendite a clienti finali (B2C) tramite i propri canali web, piattaforme digitali o intermediari di e-commerce, è appena dell’11,5%. Nonostante i primi passi in avanti compiuti durante i vari lockdown, che hanno costretto molte aziende a inventare propri modelli di business in chiave digitale, si riconferma quanto emerse nell’indice Desi elaborato dalla Commissione Europea. Nella digitalizzazione, l’Italia sarebbe quartultima davanti soltanto a Romania, Grecia e Bulgaria, finendo addirittura ultima in materia di competenze digitali e fattore umano, stando ai cinque parametri utilizzati dal Digital Economy and Society Index per la valutazione (connettività, competenze digitali, utilizzo del web da parte dei singoli, integrazione delle tecnologie digitali e servizi pubblici digitali)». Il drastico cambiamento delle imprese dovuto principalmente alla pandemia deve continuare nella sua strada dell’innovazione, per rinforzare l’organizzazione produttiva delle imprese, al fine di registrare una maggiore efficienza economica. Con Giuliano De Danieli, fondatore dell’agenzia Prima Posizione che vanta tra i suoi clienti IKEA, Pittarello e Intesa San Paolo e Banca Imi, approfondiamo la trasformazione del paradigma economico e sociale in conseguenza dell’impatto del digitale.
Che ruolo strategico per il digitale?
«Il ruolo strategico del digitale sarà a dir poco fondamentale. Si tratta di una funzione aziendale inderogabile e che d’ora in poi dovrà essere messa al primo posto perché un imprenditore, soprattutto oggi, ha necessità di trovare clienti. Una delle prime domande che occorre porsi è: dove è possibile e più facile trovarli? La risposta è intuitiva e inevitabile. Già prima, ma ancora di più con la pandemia da Covid 19, le persone passano sempre più tempo online. Questo trend, inoltre, è destinato a crescere senza sosta per poi raggiungere un picco mai visto prima tra 10 o 15 anni, quando i nativi digitali della cosiddetta Generazione Z saranno adulti. Nati con il cellulare in mano e con piattaforme sempre più modellate a immagine e somiglianza delle loro abitudini, gli appartenenti alla Generazione Z sono gli acquirenti del futuro. Per fare acquisti e raccogliere informazioni si rivolgeranno sempre più all’online, per questo ogni azienda dovrà avere necessariamente un reparto dedicato alla digitalizzazione. Questo processo, a mio avviso, darà anche il via a un cambio di paradigma che è già in atto: non si inventano più prodotti o servizi, ma si analizzano le esigenze pubblico per poi agire di conseguenza».
La trasformazione economica e sociale in che modo stravolge il paradigma economico?
«La rivoluzione digitale in atto ha già stravolto il paradigma economico in modo pesante, e le trasformazioni conseguenti sono soltanto all’inizio. Spesso parliamo di crisi senza analizzare la situazione. A mio avviso è più opportuno parlare di un cambio radicale nelle abitudini di ricerca e acquisto delle persone, quindi di una trasformazione repentina del mercato e delle sue esigenze specifiche. Questo ha portato a impatti economici pesanti su tutte quelle aziende che non hanno accettato questo tipo di cambiamento, condannandosi così a vedere il proprio mercato sgretolarsi più o meno rapidamente. L’esempio più calzante è quello di Blockbuster, un vero e proprio colosso che non è stato in grado di accettare e adeguarsi al cambiamento di abitudini e improvvisamente, un mercato enorme come il loro, si è azzerato in pochissimi anni. Questo tipo di impatto genera anche conseguenze devastanti per le aziende e per l’economia di interi Paesi. Se le aziende non si adattano, spariscono, e più aziende spariscono meno tasse si raccolgono. È un vero peccato che non ci sia una spinta, da parte dei governi, nel dare soldi a fondo perduto ad aziende che stanno attraversando un momento pesante, le cui ripercussioni rischiano di essere tragiche anche sotto il profilo sociale».
A livello europeo quali sono le sfide imprenditoriali?
«Le sfide da affrontare a livello europeo sono numerose. Basti pensare al gap che tuttora persiste, certificato da numerose indagini condotte da ISTAT, Ocse e Banca d’Italia: i concorrenti europei sono molto più avanti in materia di digitalizzazione e presenza online, il rischio concreto è quello di perdere fatturati e ricavi. Le imprese italiane, ad esempio, sono scarsamente presenti online nelle lingue in cui avvengono le sue esportazioni, risultano meno propense rispetto alla concorrenza europea ad affidarsi ad agenzie, in grado di posizionare un sito web in una determinata lingua e all’interno di un determinato mercato specifico. La sfida che si sta delineando a livello europeo è quella di competere sempre più a livello globale anche grazie al Covid, che ha accelerato il processo di digitalizzazione con una velocità insospettabile. Oggi tutto avviene e si svolge online con grande efficacia, basti pensare a settori teoricamente legati alla presenza fisica come quello delle fiere o delle esposizioni. Tutte le barriere che siamo stati abituati a conoscere stanno crollando, una dopo l’altra, e se questo sta evidenziando da un lato un grosso problema a livello competitivo, dall’altro sta generando mondi inesplorati e sempre più globalizzati in cui non essere online significa essere tagliati fuori. Un imprenditore europeo, oggi, può tuttavia sfruttare il digitale a proprio vantaggio in modi straordinari e del tutto inediti. Un esempio? Mostrare la sua azienda a potenziali clienti, fornitori e investitori attraverso la tecnologia. Con un paio di occhiali, infatti, è già possibile mostrare da remoto la fabbrica, gli uffici e il sito produttivo, facendo toccare con mano la realtà senza spostamenti e perdite di tempo».
La popolazione come reagirà all’eccessivo uso del digitale?
«La popolazione sta reagendo in maniera normale nonostante la forte impennata a cui è stata sottoposta nell’ultimo anno e mezzo. Al momento resiste la consapevolezza che, come tutte le cose, il digitale va dosato con equilibrio. Ad oggi, i maggiori fruitori di digitale come i ragazzi, continuano ad avere una vita e un’attività offline evitando l’abuso della rete anche grazie a genitori attenti. Ciò ha consentito all’Italia, e all’Occidente più in generale, di allontanare lo spettro di quel drammatico abuso tecnologico e digitale che invece caratterizza altre regioni del mondo come l’Asia. Conosciute per essere incubatori tecnologici e anticipatrici di tendenze digitali, sono zone dove si creano videogame, esistono televendite direttamente online (che ancora non hanno raggiunto l’Occidente) e con una spinta al digitale a volte esasperata. Nonostante l’impennata pazzesca di contenuti social e del ruolo inedito degli stessi social network come sistemi di divulgazione, le stesse grandi compagnie stanno mettendo dei limiti: si pensi a Youtube Kids, nato per garantire una fruizione controllata a giovani e giovanissimi. A determinare l’impatto del digitale nel tessuto sociale è soprattutto l’impostazione socio-culturale di un popolo: se, come detto, nei Paesi asiatici assistiamo a casi preoccupanti, in Europa c’è un utilizzo consapevole promosso dalle grandi aziende e che consente alle persone di affrontare in maniera del tutto normale questo processo. Un altro aspetto da considerare è quello climatico, di cui spesso si parla poco. Molti indicatori dimostrano che dove c’è il sole i casi di abuso del digitale sono quasi inesistenti e si prediligono invece momenti di convivialità offline, mentre storicamente, dove c’è un clima rigido e poca luce, accade l’esatto contrario».
Francesco Fravolini