L’ultimo bellissimo romanzo di Fernando Aramburu, I rondoni
Il libro
Toni, un insegnante di liceo in collera col mondo, decide di porre fine alla propria vita. Meticoloso e sereno, ha scelto la data: di lì a un anno. Fino ad allora, ogni sera scriverà, nell’appartamento che divide con la cagnolina Pepa e con una raccolta di libri da cui inizia gradualmente a separarsi, una cronaca personale, cinica e disincantata. Appariranno, sezionati con un bisturi implacabile, i genitori, un fratello che non sopporta, l’ex moglie Amalia, dalla quale non riesce a staccarsi, e il figlio problematico Nikita; ma anche il mordace amico Bellagamba e un’inaspettata fiamma di gioventù. E, nel susseguirsi degli episodi amorosi e famigliari di questa avvincente costellazione umana, Toni, uomo disorientato che tenta di comprendere e accettare i propri fallimenti, infonde, paradossalmente, un’indimenticabile lezione di vita.
La mia lettura
“In questo consiste la maturità, nel rassegnarsi a fare un giorno e un altro e poi un altro ciò che non ci va“.
Mi ha fatto pensare tanto questa frase di Toni, il protagonista di I rondoni, mi sono detta che quindi sono immatura perché non trovo dentro di me la forza di fare ciò che non mi va.
Questo “romanzone” (702 pagine) di Fernando Aramburu è stato una sorta di dimensione parallela in cui mi sono imbucata per diverse settimane, ho capito che la Madrid di Toni mi avrebbe presa all’amo fin dalle prime pagine perché nonostante il de profundis in cui quest’uomo è irrimediabilmente sprofondato si riesce a intercettare gli spazi vitali che ravvivano la narrazione intonandola all’indole iberica dell’autore.
“Potrei fare il politico. Ho tutti i requisiti visto che non mi distinguo in nulla e non credo in nulla” .
E’ ironico Toni, vuole convincerci che la decisione di morire è presa ma non riesce a nascondere quegli indizi che invece fanno intravedere una richiesta di segnali che possano spingerlo nel verso contrario, quei rondoni che volano liberi, se solo non lo lasciassero solo, forse potrebbero persuaderlo.
Aramburu ci trascina in continui flashback così da conoscere quel padre comunista e prevaricatore, quella madre vittima che sputa nel piatto del marito appena ne ha occasione, una famiglia disfunzionale quella di Toni ma anche quella che ha creato lui con la moglie ormai ex e quel figlio più dissociato del padre, con il quale non è possibile entrare in contatto neppure emotivamente.
E’ un fallito Toni? In realtà è un uomo come tanti, oppresso dal male di vivere, incapace di superare la solitudine che si auto-impone.
Non ho potuto fare a meno di pensare a Le Suicide di Émile Durkheim (tra l’altro citato nel romanzo), anche Aramburu sembra voler guardare al desiderio di suicidio del suo personaggio come ad una conseguenza sociale più che a qualcosa di intimo.
“Proprio perché ci piace la vita bisogna abbandonarla di nostra volontà, conservando le forme dell’educazione e dell’eleganza, quando si avverte di deturparla con il proprio sconforto, la propria vecchiaia e le proprie piaghe; quando si nota che si è smesso di meritarla, quando la si è già goduta abbastanza”.
Il 31 luglio è la data stabilita da Toni per porre fine alla sua vita, la storia è lunga un anno, vediamo scorrere inesorabili le stagioni e il ritmo della narrazione è così coinvolgente che non è possibile sfuggire a quell’apatia opprimente che stagione dopo stagione traccia la strada verso un punto di non ritorno.
Unica vera forma d’amore è quella verso Pepa, il cane, nei suoi confronti Toni ha un debito di riconoscenza per l’abnegazione con cui dimena la coda anche quando cerca di abbandonarla.
“Mi accogliesti agitando la coda con gioia. E quando ti liberai dai nodi mi desti delle frenetiche leccate di gratitudine. Tremavi, non so se per il freddo o per altro… Erano brutti giorni, Pepa. Credimi”.
La vita è una vera e propria maledizione, la si può vivere così, ed è soggettivo questo sentimento per questo non possiamo non essere solidali con Toni quando la sua ex moglie gli rimprovera:
“Tu non sai proprio cosa significhi soffrire”
Ci si può sentire un niente in questo mondo, è possibile non riuscire a trovare tregua in nessuna cosa, neppure nei libri che comincia ad abbandonare in giro per la città, eredità che lascia a sconosciuti:
“A casa, sotto la doccia, oltre a togliermi la sporcizia appiccicosa, con il getto dell’acqua mi sembrava di ripulirmi anche dalle aderenze libresche, da nozioni e concetti e frasi e massime che in fondo non mi sono mai serviti a niente”
Aver preso la decisione di morire è un modo per cambiare prospettiva, Aramburu ha scritto un romanzo sulla vita, non sulla morte, I rondoni non celebra il pessimismo cosmico.
Lo sfondo della storia è il barrio di La Guindalera, a Madrid, i riferimenti a fatti di cronaca come attentati terroristici, a piaghe sociali come l’omofobia, ricordi del recente passato di dittatura fanno di I rondoni un racconto di una verità personale, intima e al tempo stesso universale, il linguaggio è ironico, colto, a volte cinico.
Toni è marito, padre, amico, figlio, fratello, è un essere umano a 360° le cui debolezze non sono così insolite, alzi la mano chi non si identifica in nessuna delle sue paranoie!.
Moltissimi sono i riferimenti letterari e filosofici:
Oscar Wilde, Marx, Catullo, Hannah Arendt, Camus, Orwell, Bertrand Russell e molti altri.
Alcune parti del romanzo sono lunghe digressioni al servizio della trama e degli eventi primari, le 702 pagine sono assolutamente giustificate e soprattutto non stancano, non hanno stancato me che anzi, ho avuto paura finissero troppo presto.
Se cercate in I rondoni l’emozione di Patria non la troverete eppure la tensione narrativa che Aramburu riesce a creare in questo romanzo è ugualmente emozionante.
Molto bello.
I rondoni di Fernando Aramburu
Traduzione: Bruno Arpaia
Casa Editrice: GUANDA
Pp 720, Brossura € 22,00€