Anelli di fumoSe a scuola si finisce col parlare di “White Privilege” e molestie di genere

Durante una lezione di Storia gli studenti suscitano un dibattito che li porta ad aprirsi e a conoscersi meglio. A partire dalla loro paure e dalle loro situazioni di crisi.

L’altro ieri, in una delle mie classi, ho vissuto le due più belle ore di lezione in 16 anni di carriera. Insegno Storia e Filosofia al triennio di un liceo classico romano. Le mie sono materie che consentono ai ragazzi la possibilità di organizzare interrogazioni programmate. Una scelta pedagogica che serve a togliere il normale carico d’ansia che le chiamate a sorpresa creano negli studenti e consente ai ragazzi di prepararsi meglio. Non che l’ansia sia sempre da evitare a scuola, intendiamoci: ma questa è materia per un altro articolo. Alle volte gli studenti più brillanti hanno il tempo di preparare delle letture in più, ora seguendo le mie indicazioni, ora cercando in modo autonomo.

Dalla rivoluzione americana al white privilege

Mercoledì scorso assistevo alla presentazione di un mio allievo sulla Rivoluzione americana. Il ragazzo, che per privacy chiameremo Dario, è brillante ma anche un po’ diesel: viene fuori alla distanza. Di solito indossa scarpe da ginnastica spaiate: una caratteristica originale che qualcosa di lui mi ha detto sin dal primo giorno. Per queste presentazioni programmate faccio usare una PowerPoint (PPT) di 4 slide. Ogni ragazzo ha 15-20 minuti per esporre il suo argomento. Deve coinvolgere il suo uditorio curando anche la retorica, la prossemica, l’efficacia del parlare in pubblico e perfino l’estetica della propria PPT. Dario conclude la sua dissertazione spiegando che, se al tempo di Jefferson i problemi razziali degli Stati Uniti erano una delle maggiori questioni sul tavolo della giovanissima nazione, la questione non è tuttavia ancora risolta.

Il privilegio dei bianchi partendo da “Willy e il principe di Bel Air”

Per dimostrare il suo punto, Dario tratta di “white privilege“. Lo illustra mostrando due brevi clip comiche dalla serie tv degli anni ’90 “Willy e il principe di Bel Air“. Sono due sketch leggeri, in cui con una certa grazia comica, Willy (interpretato da Will Smith) e il cugino Carlton Banks (interpretato da Alfonso Ribeiro) – due giovani maschi neri – sono fermati da un poliziotto bianco mentre guidano una costosa Mercedes. Puntualmente accade quel che Willy prevede, a fronte del comportamento ingenuo e impiastro di Carlton. Questi è il figlio di un’alta e benestante borghesia nera di Los Angeles e non conosce il “privilegio dei bianchi”, ossia quella forma di razzismo che porta un bianco – a prescindere che sia poliziotto – a considerare come potenzialmente criminale chiunque bianco non sia.

Mi accorgo che la classe, guardando le due clip, non coglie la gravitas dell’argomento. Decido di collegare agli sketch un famoso documentario americano a opera di Emmanuel Acho,Black Parents Explain Their Children How To Deal With Police“. Qui dei genitori afro-americani spiegano alla loro prole come comportarsi nel caso che un poliziotto (bianco) li fermi mentre guidano.

Dal privilegio dei bianchi alla profilazione etnica

Il documentario ottiene subito l’effetto voluto: tutta la classe è catturata e comprende il problema nella sua giusta cornice di serietà. Si parla così di “racial profiling“, profilazione etnica, definita da Ramirez, McDevitt e Farrell come “Ogni azione di polizia che si basi sulla razza, l’etnia o l’origine nazionale di un individuo, piuttosto che sul suo comportamento oppure su informazioni che portino a identificarlo come coinvolto in attività criminali”.

Da qui alcuni ragazzi – insegno in una scuola di un quartiere bene di Roma – compiono un giusto parallelo circa le volte che sono stati fermati dalle forze dell’ordine in quanto guidavano la loro macchinina, ricevendo delle multe che definiscono “assurde”. I ragazzi sono consapevoli della minore gravità di ciò che riportano, rispetto a ciò che il documentario mostra. Non si paragonano alle discriminazioni patite dai loro coetanei afro-americani, ma riportano un esempio del loro quotidiano che può aiutarli a capire se hanno inquadrato il fenomeno nei suoi contorni generali.

Dalla profilazione etnica a quella di ceto

Il parallelo è per altro congruo: un poliziotto, mediamente, non proviene da una famiglia benestante come quella dei miei studenti del Trieste, Salario, Fleming, Vigna Clara o Parioli. E, se è un poliziotto giovane, può capitare che decida di fermare un quasi coetaneo alla guida di una costosa macchinina immaginandolo come un figlio di papà benestante, da multare purchessia, anche per una ragione di invidia sociale. Sarebbe un caso di abuso d’ufficio, se reiterato, basato su una profilazione di ceto. Meno grave di quello dettato dall’idea che tu sia, in quanto nero di pelle e magari maschio, un criminale, ma pur sempre una forma di pregiudizio sbagliata.

Le studentesse prendono il sopravvento e raccontano di sé

A questo punto le studentesse spostano il discorso sulle situazioni difficili che hanno vissuto fin qui in quanto giovani donne. Nel giro di pochi minuti, tutte le ragazze condividono con la classe una serie di aneddoti, esperienze, ricordi in cui ciascuna di loro (questa è stata la parte per me drammatica e inattesa) racconta momenti vissuti in cui uno sconosciuto le ha in qualche modo molestate per strada o in discoteca. Sono episodi sgradevoli, anche solo creati con uno sguardo insistito, o un tentativo di approccio più volgare.
Il tema si sposta sulle discussioni relative alle “politiche del vestiario“, cioè come vestirsi per uscire di casa e andare a divertirsi. Quasi tutte le mamme delle mie studentesse, scopro, sono assai attente alla lunghezza delle gonne delle loro figlie. Insistono perché le loro ragazze si vestano in un modo più conservatore rispetto a ciò che le figlie vorrebbero.

Se indossare una minigonna diventa un trauma

Una studentessa, che chiamerò Mara, riferisce di quella volta in cui, dopo essersi cambiata in ascensore rimettendosi la minigonna che la mamma le aveva proibito, ha poi dovuto subire attenzioni non richieste in discoteca da parte di uno sconosciuto. E di come questo fatto l’aveva fatta tornare a casa in lacrime. Di come s’era sentita in crisi riguardo al dire o non dire alla madre ciò che era accaduto: sarebbe stato un ammettere di aver disubbidito, e un riconoscere che la preoccupazione della mamma era corretta. La studentessa ci spiega di come adesso non riesca a indossare una gonna appena un po’ corta senza pensare a ciò che potrebbe accadere, senza sentirsi in colpa.
Qui sono intervenuto io, dicendo che ogni ragazza ha il diritto a vestirsi come le pare. Se vuole mettersi in mingonna deve poterlo fare e, al contempo, deve lottare per quel suo diritto. Ma deve anche lottare contro se stessa al fine che il mettersi in minigonna non diventi ogni volta per lei fonte d’ansia. Dico a Mara che deve certamente condividere con la madre il suo stato d’animo relativo a quell’episodio. Tenersi dentro un trauma non aiuta il superamento dello stesso. Ed è sempre meglio avere un canale di comunicazione con i propri genitori, specie sulle cose serie e importanti.

Il problema dell’autorità cui rivolgersi.

Un’altra ragazza, chiamiamola Teresa, racconta di quando, dopo aver bevuto un paio di drink in discoteca, ha sentito la mano di un cameriere posarsi ambiguamente sul suo fianco. Racconta del suo disagio istantaneo. Della sua difficoltà a capire come comportarsi dopo quel gesto dal lei non cercato. A chi dirlo? A quale autorità? Al padrone del night? E se questi le avesse chiesto se lei aveva bevuto?
Un ragazzo più fluido di genere, che chiamerò Ernesto, spiega le sue paure tutte le volte che gli capita di incrociare per strada, da solo, uomini di 30-40 anni e si sente osservato e giudicato, lui e il suo elegante smalto nero sulle unghie. Ernesto condivide con tutta la classe il senso di disagio che prova in quelle circostanze. La sua consapevolezza della sottile linea che c’è fra uno sguardo torvo e una parola di troppo, un insulto.
La cosa che mi colpisce come educatore è che ogni ragazza, anche quelle che in genere non intervengono, ha stavolta un proprio episodio da condividere e raccontare. E lo vuol fare.

L’aumento di empatia fra i ragazzi meno maturi

Ascolto resoconti fatti con voci tremanti e mi emoziono a mia volta. Penso sia davvero utile questo scambio per miei studenti, perché tutti si misurano finalmente con le paure di ogni altro. I ragazzi meno maturi sembrano i più colpiti: intervengono, chiedono a Teresa “ma perché non ti sei ribellata quando il cameriere ti ha toccato e tu non volevi?”. Spiego che ragazzi e ragazze hanno un diverso carico di testosterone e di indole. Che ciascuno reagisce in modo differente in reazione a un episodio di abuso, anche lieve. Accenno agli studi della differenza di genere.
Giornate così ti rimettono al mondo come prof e ti danno il senso del perché insegnare è senza dubbio il mestiere più bello del mondo.

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