Forse continuiamo a non andare al cuore del problema che è altamente etico e filosofico.
Da settimane è molto “cool” fare invasioni di campo accostando i saggi di Schopenhauer con le annate della rivista scientifica The Lancet, o gli aforismi di Feuerbach che sostituiscono i report sui vaccini della FdA, Ema e la nostra agenzia del farmaco Aifa.
L’ultimo summit di intellettuali radunati a Torino intorno al movimento Dubbio e precauzione ha scatenato polemiche furibonde e tuttavia – sentendo ore di interventi si è parlato di molte cose ( i no-vax come i Gesù e i suoi discepoli perseguitati, la nuova dittatura sanitaria, il virus a tavolino per ridare quattrini a big pharma, incostituzionalità dell’emergenza, il crollo delle libertà eccetera) ma si è trascurato inspiegabilmente un tema importante che sintetizzerei così: si possono considerare i diritti sganciati dai doveri e dalle responsabilità? Perchè non ci si è focalizzati in modo intelligente sul tema? perchè creare la solita facile divisione ideologica tra libertari e moralisti, tra guelfi vaccinisti e ghibellini complottisti?
L’aver ridotto il convegno alla lotta apocalittica tra profeti vs nuovo ordine mondiale ha dato fiato al mainstream chiacchierone ma non ha centrato l’obiettivo.
Se proprio dobbiamo stare sull’intellettualmente ragionevole chiediamoci come poter rifondare la basi della cittadinanza, ricostruire un percorso resosi necessario dalla velocità dei cambiamenti sociali e geopolitici attuali.
In questo senso vengo alla domanda (che per primo mi sono posto io e che rilancio): come ripensare i meccanismi democratici al tempo di una pandemia così drammatica come quella che la storia ci ha offerto di vivere?
Una prima risposta ci viene – spiace per gli intellettuali di alto profilo – proprio dalla costituzione che li smentisce clamorosamente dichiarando (e in qualche modo imponendo) come “cogenti” le disposizioni utili alla tutela della salute dell’individuo e della collettività (art. 32). Un diritto che declina indissolubilmente un egual dovere (sempre della Repubblica) a porre limitazioni se tale diritto alla salute è compromesso (art. 16).
Basterebbe questo per poter tranquillamente dimostrare come le attuali azioni di governo si pongono dentro e non fuori la cornice costituzionale. Ne consegue un fatto: esistono quei doveri di cittadinanza connessi ai diritti per la protezione e lo sviluppo della comunità sociale. A volte, si ha invece la percezione di vivere un’esaltazione feticistica dei diritti, che si pretendono con pervicace arroganza allo Stato di difendere, in modo unilaterale, senza contrappeso.
Jurgen Habermas, parlando del vivere la cittadinanza come una molteplicità di appartenenza (1991) invita a tenere fisso lo sguardo sul cosiddetto spazio di relazioni, di conflitti e di legami che connettono i cittadini e – a mio avviso – declinano le scelte politiche e sociali. E come dimenticare la felice intuizione di Giovanni XXIII il quale, nella Pacem in terris, scrive che una “comunanza di origine e di supremo destino lega tutti gli esseri umani e li chiama a formare un’unica famiglia umana“.
Se provassimo a far discendere una riflessione filosofica e sociale sul presente e il futuro delle democrazie nella varietà delle competenze ma senza sincretismi deliranti e sovrapposizioni forse faremmo un servizio intellettuale nel senso etimologico ovvero “leggere e comprendere le cose” e capiremmo che in nome di una cittadinanza sostanziale dobbiamo riconoscere, in questo tempo così delicato, il diritto della salute a tutti cercando le soluzioni migliori nel campo della possibilità offerte in itinere dalla medicina attuale. E la scienza medica cammina sulle gambe della storia, procede per tesi, esperienze, studi e raccolta di dati. In tal senso, la critica alla medicina accusata di ondivaghezza e di contraddizione; è da un lato una sciocchezza pretestuosa e dall’altro tradisce l’ingenuità di pensare ad un dogmatismo sottotraccia come se avessimo dovuto affidarci a tavole della legge sacrali, estremismo che persino le teologie escludono eccetto i fondamentalismi.
Non conosco – insomma – i diritti come “monadi” come direbbe Leibiniz. E non penso al vivere insieme come il solo frutto di naturale socievolezza (il politikòn zôon di Aristotele) ma una cittadinanza attiva costruita dalla reciproca benevolenza (Seneca) e dalla ricerca di comunitaria sicurezza (Hobbes).
Da questa pur breve antologia, saremo ingenui ma sorge un’ultima domanda: ma che cavolo si sono detti gli intellettuali giorni fa se no queste cose?