Il Digitale Gentile favorisce la crescita economica mediante la creatività. È questa la tendenza emersa dalla survey realizzata dalla community di Flowerista. «L’analisi evidenzia una retention – si legge nel Documento – rispetto all’anno precedente pari al 28%, giustificata da una serie di risultati che avvalorano l’impatto positivo innescato dalla consulenza fornita da Flowerista». Scendiamo nel dettaglio per leggere una breve sintesi dell’analisi rilevata dai dati raccolti dall’indagine. «Il 60% degli intervistati afferma che il numero dei propri clienti è aumentato nell’ultimo anno; il 62% ha avviato nuove collaborazioni (il 28% di queste sono state trovate grazie alla vetrina sul sito Flowerista); il 27% sostiene che nel 2021 il fatturato è cresciuto rispetto all’anno precedente (la distribuzione delle risposte a questa domanda ha evidenziato una relazione tra chi segue Flowerista da più di 2 anni e chi ha avuto un aumento di fatturato); l’80% conferma di aver migliorato il proprio rapporto con il digitale; il 93% dichiara di aver appreso nuovi concetti e nozioni sul mondo digitale; il 77% assicura di gestire meglio il proprio tempo e con meno stress». Sara Malaguti, ex borsista classe 1984 e ideatrice di Flowerista (https://www.flowerista.it/), ecosistema di servizi digitali che accompagna i creativi verso la realizzazione del proprio sogno imprenditoriale, pubblica la Relazione annuale di impatto economico, sociale e ambientale dell’impresa, redatta con il supporto di una survey somministrata alla sua community. C’è la necessità di trovare alle persone e alle organizzazioni di Flowerista gli strumenti e le modalità, affinché sia presente l’allineamento tra il desiderio di fare impresa e la possibilità di farla davvero. E i risultati confermano che, grazie a Flowerista, si sta riducendo la distanza tra idea e azione. I dati dimostrano che l’innovazione delle industrie creative parte dal basso: da coloro che scelgono di investire le proprie risorse sulla realizzazione di un progetto imprenditoriale nuovo. Nella maggior parte dei casi non c’è un mercato di riferimento online, esistono solo strumenti utili a originare un’innovazione disruptiva. In questo scenario il miglior alleato, secondo Flowerista, è il Digitale Gentile, l’opportunità di formarsi, aggiornarsi, fare rete, ottenere visibilità e internazionalizzarsi, attraverso il web, nell’ottica di un’intelligenza diffusa da cui tutti possono attingere con l’ingresso all’interno di una community. Con Sara Malaguti entriamo nel dettaglio per approfondire l’argomento della creatività delle imprese, a beneficio della crescita economica italiana.
Che ruolo assume la tecnologia per un’impresa?
«Credo sia importante ma da sola non basta, se non è accompagnata da un’adeguata formazione delle persone che dovranno poi usarla. C’era uno spot televisivo qualche anno fa che diceva “La potenza è nulla senza il controllo”. Ecco, oggi mi spingo a dire che la tecnologia è nulla senza il capitale umano. Spesso, nelle aziende, mi capita di vedere che il management si concentra esclusivamente sugli strumenti tecnologici da adottare – consigliati da questo o da quello, che ovviamente hanno tutto l’interesse a venderli – e molto meno sulla mentalità e sulla preparazione con cui quegli strumenti verranno accolti dalle persone. È indubbio che vi sia una certa resistenza culturale al cambiamento, insita nell’animo umano; se non c’è un reale coinvolgimento dei dipendenti a monte, che motivi la direzione intrapresa dall’azienda e che li faccia sentire attori del cambiamento, mi aspetto che prevalga un atteggiamento di scetticismo verso le nuove tecnologie, che rimarranno dei mastodontici investimenti mal utilizzati. Si crede che la tecnologia debba essere un punto fermo di ogni innovazione e quasi un criterio che assicura il successo: la tecnologia in realtà è un abilitatore, è l’innovazione costante la vera chiave del successo oggi ed essa passa attraverso una buona dose di comunicazione e organizzazione del capitale umano, oltre che dall’ascolto dei clienti. Personalmente, ho costruito la mia azienda senza scrivere una sola riga di codice e per quanto possa sembrare strano, siamo 100% digital senza avere una piattaforma proprietaria. L’ho fatto – anche – per dimostrare che si può fare. Non è perfetto, ci siamo ovviamente dovuti appoggiare a piattaforme esterne e abilitare l’integrazione dei vari sistemi, ma siamo arrivati a servire più di 400 clienti abbastanza rapidamente e continuiamo a crescere. Il sistema no-code sta resistendo e noi ci possiamo concentrare di più sul customer care, il nostro vero asso nella manica. Con le entrate in arrivo, magari un giorno decideremo di investire in tecnologia proprietaria, in “vero codice”, ma solo quando il vero codice sarà necessario. Non solo, in questo modo abbiamo potuto validare ogni singolo passo e ogni prodotto digitale senza rischiare di perdere tempo a costruire una “tecnologia” che nessuno userà mai».
Il digitale quanto influenza l’efficienza dei processi produttivi?
«Automatizzare o digitalizzare un processo non significa per forza di cose eliminare le inefficienze al suo interno: imparare a riconoscere e rimuovere gli “sprechi digitali” è una conoscenza imprescindibile nonché una delle sfide più importanti da affrontare, insieme alla necessità di partire dalle fondamenta per costruire un progetto di trasformazione digitale. Prima abbiamo parlato di tecnologia come abilitatore, bene, il digitale è addirittura un amplificatore, quindi ancora più dirompente in un certo senso: se i processi di lavoro sono snelli, dall’applicazione di nuovi strumenti digitali si otterranno nuovi e importanti benefici, viceversa, se i processi non sono ottimizzati, il digitale enfatizzerà solamente errori ed inefficienze. Un sistema gestionale, ad esempio, per quanto potente, rimane soltanto un guscio vuoto finché non è popolato di dati utili e ben costruiti, fino a quando non viene utilizzato dalle persone e reso capace di produrre informazioni utili. Ed è proprio intorno al ruolo dell’informazione e della gestione della conoscenza che si gioca oggi la vera partita tra le imprese. Il cosiddetto knowledge management può essere supportato proprio dal digitale. Facciamo un esempio: grazie a una miriade di touchpoint digitali (il sito web, i social, le campagne di advertising, le mail ricevute) oggi un’azienda può entrare in possesso di dati, anche micro, relativi alle abitudini dei suoi clienti, in una quantità mai vista prima, riuscendo quindi a carpire quali sono i gusti dei consumatori e le richieste del mercato. Domanda e offerta si incontrano di conseguenza in un unico processo che si basa sulla diffusione e sulla ricezione di queste informazioni. Se poi non vi è un adeguato processo di lettura, analisi e sintesi di questi dati, essi non fanno altro che intasare qualche strumento di CRM e “prendere polvere”. In questo senso il digitale deve essere inteso come strumentale all’organizzazione e alla diffusione della conoscenza, sia all’interno dell’azienda stessa, sia verso l’esterno, sia dall’esterno verso l’interno. Le risorse basate sulla conoscenza, poiché difficili da imitare e ottenere, sono determinanti nella creazione del vantaggio competitivo. L’organizzazione non è altro, infatti, che un insieme di conoscenze dove il vero valore è generato dalla capacità di diffusione di questa conoscenza. Quindi per riassumere: prima è opportuno avere i chiari i processi di trasferimento della conoscenza e i relativi ruoli in azienda, poi ha senso chiedersi come il digitale possa efficientarli».
La creatività in che modo aiuta e sostiene lo sviluppo economico e finanziario di un’impresa?
«Parto da una premessa: per me la creatività è molto più diffusa e trasversale di quanto crediamo, ha molto più a che fare un approccio, un mindset, che non con l’arte o la genialità. Si può essere creativi anche nella propria quotidianità se si esercita il pensiero laterale. Tant’è che a questo concetto di creatività diffusa ho dedicato un intero podcast, che si chiama proprio “Con la creatività si mangia”. Ora rispondo alla domanda: perché dunque la creatività ci dà uno stipendio? Secondo me dobbiamo prendere in esame due macro-categorie di imprese: quelle che sono interamente basate sulla Creative Economy – e sono sempre di più – e quelle che, pur occupandosi di altro, sfruttano processi creativi e le tante tecniche di brainstorming creativo (o gamestorming) per supportare l’innovazione e di conseguenza il proprio sviluppo. Per quanto riguarda le prime, la proposta di valore si basa sull’interazione tra creatività e idee, proprietà intellettuale, conoscenza e tecnologia. Fin dalla sua prima definizione – introdotta nel 2000 – la locuzione “economia creativa” è servita a indicare la trasformazione della nostra società da un’economia industriale a una basata sulle idee. L’economia creativa rappresenta circa il 3% del Pil globale e spazia dallo spettacolo all’editoria, dalla pubblicità all’architettura, dal design alla moda, dal cinema alla fotografia, fino alla musica, ai software, ai giochi per computer, tv e radio. È proprio il focus quotidiano di Flowerista – Digital System servire e far progredire questi settori. È un comparto in rapida espansione, che cresce ogni anno di un valore vicino al 10% nei Paesi in via di sviluppo. Tanto che, secondo recenti previsioni, rappresenterà circa il 10% del Pil globale nei prossimi anni. E ovviamente un settore in espansione è anche foriero di nuovi posti di lavoro, nuovi guadagni, nuovi segmenti di mercato: qui lavorano più di 30 milioni di persone in tutto il mondo, per lo più giovani*. Nel caso invece di imprese, anche della Old Economy, che innovano grazie ai processi creativi, cito un libro che per me è stato rivoluzionario: How to Be Strategic di Fred Pelard. L’autore sostiene che, a parte la possibilità di creare il futuro, che è appannaggio ormai solo di Amazon, Facebook, Google ed Apple, tutte le altre aziende non possono fare strategia solo con i dati o i fatti, perché i dati, inevitabilmente, si riferiscono al passato. Ed è difficile fare strategia solo con la creatività, perché potrebbe non essere validata dai dati, o essere dipendente dai gusti dei singoli individui, spesso i leader dell’azienda stessa. La strategia è complicata, oscura, quindi molto spesso si preferisce non averla. Facciamo le cose bene, appena un po’ meglio di come le abbiamo sempre fatte, speriamo tutto bene. Ma c’è una terza via: se non ci sono abbastanza dati, non c’è modo di sapere già cosa fare e il CEO ammette di non avere la soluzione in tasca, allora ciò che bisogna attuare è un mix di ipotesi e validazioni, che il digitale rende molto più snelle e veloci. Creare workshop collaborativi, dove la creatività fluisce liberamente, per espandere le possibili visioni, soluzioni, alternative, idee velocemente, ma poi ciascuna idea è sottoposta a una feroce validazione, sapendo che nessuna ricerca empirica ci darà mai la certezza assoluta come ce la dà il mercato».
*Fonte UNCTAD: https://unctad.org/news/creative-economy-have-its-year-sun-2021
Francesco Fravolini