il SocialistaDisarm you with a tweet

Ci sono cose lontane che sembrano lontane e diventano di colpo vicine. Lo è stato il Covid-19 prima e lo è la guerra in Ucraina adesso.

Partiamo da una premessa doverosa: l’invasione dell’Ucraina, da parte della Russia, è da condannare, senza alcun “ma”. Ahimè l’ex Unione Sovietica su buona parte dell’intellighenzia, su politici più o meno di tutti gli schieramenti, su un bel pezzo di imprenditoria esercita ancora un certo fascino, si tratta però di persone con lo sguardo rivolto indietro, al passato, e invece oggi più che mai serve guardare avanti.

“Kyiv e Kharkiv sono state bombardate per la prima volta nel 1941. Due uomini hanno dato l’ordine: Adolf Hitler e Vladimir Putin”.

Bastano i pochi caratteri di un tweet di Illia Ponomarenko, reporter del Kyiv Independent, per capire che l’azione di Putin non può ammettere alcuna giustificazione.

Qual è il fattore comune dell’ideologia nazi-fascista ieri e di Putin oggi? Il nazionalismo, che è cosa ben diversa dall’amor di patria. I nazionalisti costruiscono uno storytelling giocato sulla logica delle differenze, sull’identificazione di un nemico, di un capro espiatorio su cui riversare frustrazioni e inquietudini. Il messaggio, in soldoni, è questo: recuperiamo la sovranità nazionale così potremo fare politiche a sostegno del popolo. E il popolo, spesso, finisce per crederci.

Il messaggio nazionalista di Putin – lodato a lungo, anche, da numerosi politici italiani – già di per se criticabile nascondeva un piano ben più grave, quello di un disegno imperialista. Rifare l’Unione Sovietica e minacciare l’Occidente.

Senza entrare in analisi assai complesse che ben altre firme sono chiamate a fare, cosa sta succedendo in Ucraina? Da una parte c’è il nazional-imperialismo di Putin dall’altra c’è l’amor di patria di Volodymir Zelensky, Presidente dell’Ucraina, autodefinitosi l’obiettivo numero dei russi, e del suo popolo.

L’ex attore diventato presidente, mentre  Mosca diffondeva la notizia che era pronto a fuggire lasciando il Paese invaso dalle truppe russe,  si è piazzato davanti al palazzo presidenziale, e tenendo lo smartphone in mano si è fatto un video mostrando a Putin ed al mondo intero: “Io sono qui”.

Un gesto comune a molti della nostra generazione, ma che in questo scenario di guerra ha assunto (anche) un’importanza strategica.

Eravamo convinti di vivere nel migliore dei mondi possibili eppure ci siamo riscoperti cittadini di un mondo retto su un equilibrio fragilissimo.

Il contrasto tra le apparizioni social del 44enne Presidente ucraino in maglietta verde militare e i lunghi tavoli dei gelidi vertici col settantenne Putin al Cremlino ha avuto un bel peso sull’opinione pubblica. Secondo Carole Cadwaller del Guardian, la principale voce liberal del mondo, Zelensky dal punto di vista comunicativo non sta sbagliando un colpo. Le fa eco Giovanni Diamanti, co-founder & partner dell’agenzia Quorum: “comuicazione diretta, social media, quello che volete: ma alla fine ci ricorderemo di lui per questi giorni”.

La (r)esistenza ucraina e le conseguenti scelte dell’Unione Europea stanno passando anche attraverso le capacità comunicative del Presidente Zelensky e del racconto della guerra attraverso i social media.

Lasciando un attimo la cronaca ed allargando un po’ lo sguardo è evidente come eravamo convinti di vivere nel migliore dei mondi possibili, dove – come è avvenuto per la lotta al Covid-19 – l’obiettivo (o chimera) era rappresentato dal “rischio zero”, dove la guerra non era nemmeno un’ipotesi. Eppure ci siamo riscoperti cittadini di un mondo retto su un equilibrio fragilissimo.

Pensavamo – o speravamo – di uscire migliori dalla pandemia e invece ancora con il green pass nello smartphone e la mascherina a coprirci naso e bocca ci siamo ritrovati con la minaccia nucleare alle porte.

Anni di ricerca e di progresso economico ci hanno fatto credere che ci si salva grazie al progresso esteriore e invece è quando si smette di cercare il potere e quindi la potenza e ci si mette a servire che ci si salva.

È questa la lezione principale di Zelensky, mettersi a servizio. Ed è quello che sono chiamati a fare tutti i leader europei, senza nostalgie, come quella per Angela Merkel, e senza tentennamenti.

Le lacrime delle madri, il sacrificio del popolo ucraino, le macerie visibili nelle loro città sono le macerie del mondo di ieri, riprendendo il titolo del libro di Stefan Zweig, lettura assai utile in questi giorni. Un mondo ai titoli di coda ma per il quale dobbiamo essere pronti a pagare – anche noi – un prezzo per quelle cose che davamo per scontate. La minaccia non è solo all’Ucraina, il rischio è che non ci sia più il nostro orizzonte, quello del continente di pace, della generazione Erasmus, sul quale dobbiamo continuare ad avere lo sguardo fisso, senza tentennamenti. Difendere l’Ucraina è difendere tutti noi.

Questa non è un’analisi, è un auspicio e gli auspici spesso hanno anche una colonna sonora a fare da sottofondo. C’è la frase di una canzone degli Smashing Pumpkins del 1994 che mi risuona in queste ore: “Disarm you with a smile”, parafrasandola l’auspicio è che la forza dei social media ucraini, di tutti noi, tenga testa alle bombe di Putin.

Alla nostra generazione, di cui anche Zelensky è figlio, è affidato il compito e il coraggio di aprire un’epoca nuova nella quale il faro non sia l’io ma il noi, dove il fine sia la cooperazione e non l’egoismo. Spes contra spem, il motto di San Paolo,  essere speranza per dare speranza, risuoni forte, oggi più che mai.

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