La prima operazione di smaltimento di rifiuti radioattivi avvenne nel 1944 a Oak Ridge, nel Tennessee, in una trincea. Erano anni pioneristici per il nucleare, e in quell’occasione le misure di sicurezza adottate furono davvero poche. Per costruire il patrimonio di tecniche e di norme che oggi regolano questo settore ci sono voluti decenni, nel corso dei quali sono stati compiuti errori, sottovalutazioni, ingenuità. Tra queste spicca l’impianto di Asse II, in Germania, (di cui parla l’articolo di Giusi Valentini) costruito negli anni Sessanta, la cui bonifica costerà cara ai contribuenti tedeschi.
È capitato in tutti i settori industriali allo stato nascente, specie negli anni dello sviluppo incontrollato, di sottovalutare i rischi di gravi danni ambientali. Ma nessuna attività industriale suscita altrettanto allarme del nucleare. È giustificata questa differenza di trattamento che l’opinione pubblica dedica a questo settore rispetto ad altri? Oggi nel mondo ci sono 0,4 milioni di tonnellate di rifiuti radioattivi a lunga vita e 400 milioni di tonnellate di rifiuti industriali pericolosi. Il rapporto è uno a mille, ma l’allarme suscitato nell’opinione pubblica è mille a uno. Eppure sui primi (i rifiuti nucleari) viene esercitato un controllo continuo da organismi internazionali e nazionali creati ad hoc, e ogni piccola deviazione dalla norma viene accompagnata da titoli cubitali sui giornali. Dei secondi, che spesso vengono gestiti fuori da ogni controllo, si parla poco: in Italia sono stati smaltiti in larga quantità dalle ecomafie che li hanno semplicemente sparsi nei campi agricoli della Campania, o sotterrati in cave illegali nel Meridione o nei Paesi poveri del mondo. Quanti miliardi di euro ci vorranno per risanare i territori inquinati? Quante malattie sta provocando questo sfacelo? Non esistono risposte a queste domande. L’opinione pubblica reagisce passivamente di fronte a notizie di questo tipo.
Solo la parola «nucleare» crea allarme. Eppure il nucleare, nonostante gli errori che sono stati storicamente commessi, è oggi il settore industriale più controllato e regolamentato del mondo. Sono i dati a dimostrarlo.
Negli Stati Uniti il Cercla (Comprehensive Environmental Response, Compensation, and Liability Act; comunemente chiamato Superfund, un istituto creato negli anni Ottanta per decontaminare i siti inquinati) ha stilato la classifica delle sostanze chimiche che rappresentano il rischio maggiore per i cittadini, in ordine di priorità. Questa lista è basata su tre elementi: la tossicità, la diffusione sul territorio e la probabilità che esseri umani siano esposti a queste sostanze. Ebbene, ai primi posti della classifica compaiono l’arsenico, il piombo, il mercurio, il cloruro di vinile, il benzene, il cadmio e così via. Al contrario le sostanze prodotte dalle centrali nucleari compaiono al 98esimo posto (uranio), al 101esimo (torio), al 121esimo (plutonio 230). In questa classifica, il radon, un gas radioattivo che in Italia è il maggiore responsabile del fondo di radioattività naturale, compare in 105esima posizione. Che cosa significa questo? Che negli Stati Uniti dopo 60 anni di attività nel settore nucleare, con 104 reattori nucleari in funzione, il pericolo di contaminazioni da sostanze radioattive è marginale.
Il rischio reale (assai diverso dalla percezione del rischio) arriva da sostanze a cui spesso si dedica poca attenzione, nonostante si trovino in larga quantità nelle campagne del Sud Italia, sotterrate qua e là in campi che talvolta vengono coltivati. La fobia irrazionale del nucleare ha effetti disastrosi. L’Italia è l’unico Paese civile che non ha un deposito nazionale per i rifiuti radioattivi di prima e seconda categoria, cioè quelli che vengono prodotti dagli ospedali (dai reparti di radiologia, per esempio), dalle attività industriali, dalla ricerca. La ragione? Dell’argomento è persino difficile discutere pubblicamente senza che nasca un comitato “anti”. Molti cittadini, che pure vanno a fare la Tac, non vogliono che i residui delle sostanze utilizzate per le radiografie vengano stoccate a 50 chilometri da casa loro. Si tratta dell’ennesima anomalia italiana che prima o poi sarà necessario risolvere.
*Enrico Pedemonte collabora al Forum Nucleare Italiano