Non è l’Iran a seguire la strada tracciata dall’Egitto, ma è il Cairo che segue Teheran. È così perché quella a cui abbiamo assistito ultimamente sulle sponde del Nilo non è una rivoluzione, ma una presa di potere dei militari. Questo in Iran è già successo l’anno scorso: e segnali che i basiji, le forze paramilitari fondate da Khomeini, possano voltare le spalle al presidente Mahmud Ahmadinejad, ce ne sono davvero pochi.
In Egitto i militari probabilmente non pianificavano di prendere il potere, ma sono stati rapidi a cogliere le opportunità della situazione. I generali avevano compreso che Mubarak non era più in grado di rispondere alle esigenze popolari, per limiti politici e umani; la polizia inoltre non sarebbe stata in grado di contenere l’anarchia crescente. Hanno usato la piazza come arma di pressione, hanno insediato al governo uomini vicini agli apparati di sicurezza (Omar Suleiman) e, appena dimessosi Mubarak, hanno sciolto il parlamento e sospeso la costituzione. È davvero ottimista chi parla di “rivoluzione”: tale è solo come facciata, perché per ora i fatti parlano di golpe militare.
Se ne sta accorgendo anche la Bbc. La mattina del 14 febbraio ha pubblicato sul suo sito una paginata in cui si confrontavano durata e risultati di sei “rivoluzioni”: Iran 1979, Tienanmen 1989, Indonesia 1998, Ucraina 2004, Tunisia 2010 ed Egitto 2011. Orbene, per quanto riguarda l’Egitto l’obiettivo indicato era «rimuovere il presidente Hosni Mubarak e indire libere elezioni democratiche». Fino a una cert’ora, come risultato la Bbc indicava «successo». Verso sera era stato corretto in un più prudente «parzialmente raggiunto». In Iran nel 2009 la dinamica è stata simile. Un’opposizione organizzata ha coagulato le tensioni di rivolta dopo delle elezioni presidenziali dalla dubbia attendibilità; così come Mubarak oggi, il governo ha cercato di fare più concessioni possibili alle forze militari e para-militari, che hanno deciso di sparare sulla folla – pratica che, per fortuna, in Egitto sembra essersi palesata solo in pochi, sfortunati episodi.
Rimane da comprendere come mai gli apparati militari abbiano compiuto scelte così diverse nei due paesi. Forse basiji e guardie rivoluzionarie in Iran sono rimaste legate al governo perché dalla regola teocratica derivano il proprio potere: scossoni al concetto di stato, così come voluto a suo tempo da Khomeini, avrebbero colpito loro stessi per primi. È anche per questo che, tra twitter e siti internet, i leader dell’opposizione iraniana continuavano a ripetere di essere solo contro Ahmadinejad, e non contro la teocrazia.
In Egitto i militari non hanno sparato anche perché era assente un’opposizione organizzata, che potesse minacciare le loro prerogative. Sapevano, come poi è successo, che la loro presa di potere avrebbe avuto a che fare con un vuoto politico come quello attuale. È uno scenario che hanno preferito all’opposizione aperta: se avessero sostenuto Mubarak, una volta caduto il presidente sarebbero caduti anch’essi. In Iran, se cade Ahmadinejad guardie rivoluzionarie e basiji continuerebbero a basare i propri vantaggi sulla casta clericale. In Iran i militari correvano meno rischi rispetto all’Egitto.
Adesso al Cairo i generali hanno promesso un nuovo referendum costituzionale entro un paio di mesi. È possibile che questo avvenga. Il problema è trovare oggi un’opposizione che essi possano ritenere degna. Nessuno scenario è escluso, anche i più positivi. Ma proviamo a immaginare: che succederà quando i generali comprenderanno che l’unica, vera opposizione è di stampo islamista? Non è un giudizio di merito, quanto un dato di fatto. Se i militari sono forti tentano di governare la democrazia a proprio vantaggio. È successo per anni in Turchia; è successo per tre volte in Nigeria e per due volte in Indonesia. Succederà ancora.
Con un timore: in Iran trent’anni fa prima di ribellarsi allo Scià i militari hanno usato il pugno di ferro, con stragi immani che sono culminate nel “venerdì nero” dell’8 settembre 1978. Solo col sangue dei martiri si vincono le rivoluzioni; perché in Iran, se funzionasse, sarebbe davvero una rivoluzione, ma basata sul sacrificio di tanti.
*Docente di economia e politica presso l’Università di Potsdam e Senior Fellow di bigs-potsdam.org