Se per Ben Alì erano bastati pochi giorni di protesta per fa si che il presidente tunisino abbandonasse il Paese, per quello egiziano Mubarak ce ne sono voluti 18. Una prova di forza vinta dalla piazza che ha ottenuto ciò che voleva sin dal primo giorno di protesta: le dimissioni.
Tuttavia il vincitore temporaneo di questa crisi è l’esercito. Sono i militari che hanno consentito a Mubarak di rimanere al potere per 18 giorni, che l’hanno difeso dalla piazza, che hanno gestito in maniera piuttosto misurata le proteste, che hanno dialogato con l’opposizione. E sono stati loro che, quando hanno visto che la rivolta e le proteste avrebbe potuto coinvolgerli (sono solamente di ieri le prime manifestazioni contro l’esercito), hanno messo alla porta Mubarak, “salvando” lo stato egiziano. Sono loro che possono garantire continuità nei rapporti internazionali, soprattutto quelli con gli Usa. Negli ultimi decenni sono stati soprattutto loro a beneficiare degli aiuti americani all’Egitto. Avvantaggiandosi di questi aiuti, i militari sono diventati una vera e propria casta, quasi un’istituzione in grado di auto-sostenersi attraverso la creazione di imprese, industrie, aziende agricole, eccetera… Un apparato che viene gestito con un duplice scopo: difendere la nazione da nemici esterni e preservare la stabilità interna. L’esercito si ritiene infatti il difensore del popolo egiziano e viene riconosciuto come tale da gran parte della società.
Al suo interno però vi sono comunque divisioni, soprattutto generazionali. Come si è visto nella gestione delle proteste le gerarchie più elevate, i commilitoni del deposto presidente, hanno solidarizzato con lui anche in onore dei vecchi tempi e delle battaglia vinte, come orgogliosamente ricordato dallo stesso Mubarak nel suo ultimo discorso. I ranghi più giovani invece sono sembrati più vicini alla piazza e più sensibili alle aspirazioni della popolazione. Paradossalmente, tuttavia, le incognite di oggi restano quelle di qualche giorno fa, quelle precedenti alla partenza di Mubarak. Il futuro dell’Egitto sarà probabilmente determinato dalla triangolazione tra Stati Uniti, esercito e Fratellanza Musulmana. La transizione lenta auspicata dalla comunità occidentale rimane una speranza ma potrebbe essere difficilmente percorribile se non ci fosse un certo grado di legittimo riconoscimento tra queste tre parti. La piazza ci dirà presto se il rapporto tra esercito e l’opposizione islamica è reale.
I Fratelli musulmani, da parte loro, sono rimasti spiazzati dalla proteste, come tutti. Non sono stati responsabili dell’avvio della rivoluzione ma cercheranno comunque di cavalcarla. Probabilmente opteranno, almeno inizialmente, per una linea di piena legittimità scontrandosi con il pregiudizio islamico di parte dei militari. L’integrazione dei Fratelli Musulmani nel processo politico pare comunque inevitabile. La loro consistenza numerica è stata probabilmente sovrastimata in queste settimane. Potrebbero costituire la maggior forza politica del Paese ma essere lontani dall’essere maggioritari. Resta difficile una completa egemonizzazione dell’opposizione politica che possa costituire un impedimento al processo di democratizzazione.
A tal proposito si è discusso molto in questi giorni del modello turco. La sua interpretazione egiziana, e più in generale mediorientale, rimarrebbe ambigua: i Paesi occidentali ci hanno voluto vedere soprattutto la garanzia contro l’espansione dell’islamismo radicale, le popolazioni arabe hanno guardato invece a un paese e a una forza politica, l’Akp di Erdogan, capaci di una originale proiezione islamica in politica interna, ma anche estera (si veda come sono mutate le relazioni con Israele). L’atteggiamento politico della Fratellanza sembra pragmatico quanto quello dell’Akp, disposto ad accettare le regole di una dialettica parlamentare, ma molto potrà dipenderà dall’esito dei conflitti interni al gruppo dirigente.
Tuttavia sono i militari ad avere ancora il potere e, ancora una volta, saranno loro a dover sciogliere le ambiguità con le loro scelte. Ciò che chiede la piazza – fine dello stato di emergenza, vere elezioni libere, riforma profonda delle strutture economiche e politiche – potrebbe certamente toccare i privilegi della casta militare mettendo a repentaglio il processo di democratizzazione. Saranno loro a dover rinunciare a qualcosa per far si che funzioni il “modello turco”. Come prontamente rilevato da Foreign Affairs il pericolo potrebbe consistere quindi nella persistenza del “Mubarakismo” . Pur senza Mubarak.
* Ricercatore presso l’ISPI