Le settimana che si chiude non passerà alla storia della politica italiana. Ma aiuta, e molto, a capirne la cronaca passata e a prevedere con buona approssimazione quella futura. Lunedì 14 se ne va tutto aspettando la decisione del gip di Milano sulla richiesta di rito immediato avanzata dalla procura nei confronti di Silvio Berlusconi. Cristina Di Censo martedì 15 delibera: il rito immediato è accordato e l’udienza convocata per il 6 aprile. Gli entusiasti e tardivi sostenitori della soluzione giudiziaria per l’enorme tema politico posto da Berlusconi esultano. Dimenticano tutti i tentativi andati a vuoto in questi 17 anni, da un lato, e che la tempistica reale del rito immediato, dall’altro, è tutt’altro che fulminea. A sottolineare la gravità delle dimenticanze peraltro arriva puntuale l’evoluzione della settimana politica.
La prospettiva di un trionfo giudiziario lascia immediatamente il posto agli impacci di chi, su quel trionfo, puntava molte delle sue carte. Il Partito Democratico, ad esempio, si moltiplica subito in posizioni diverse e incompatibili sulla leadership, come se il Tribunale di Milano avesse stabilito che il 6 aprile si svolgono le elezioni politiche e non un processo penale. Nichi Vendola, mercoledì 16, lancia Rosy Bindi come candidata unitaria del centrosinistra. La proposta raggela Bersani, viene rilanciata un paio di giorni più tardi da Famiglia Cristiana e obbliga la Bindi a dire che «la scelta spetta al segretario». A dire il loro no alla candidatura della cattolica di matrice popolare ci pensano anche altri due in odor di toto-nomina: Matteo Renzi ed Enrico Letta. Intanto Marco Follini – l’ex segretario dell’Udc che trasmigrò da solo verso il centrosinistra in soccorso della risicatissima maggioranza di Romano Prodi – lancia il nome di Mario Monti come candidato. E riparte il solito giro di dichiarazioni tra favorevoli e contrari all’ipotesi di proporre agli italiani il 67enne ex commissario europeo. A ribadire il proprio no a una grande coalizione che comprenda tutti i non berlusconiani e gli anti-berlusconiani, poi, è anche il segretario attuale dell’Udc, Pierferdinando Casini. La stessa ipotesi viene invece rilanciata da Massimo D’Alema che parla di «coalizione allargata». Anche a Fini? Certo, anche a Fini.
Fini, già. Futuro e Libertà esce in frantumi dal congresso fondativo di Milano dello scorso week-end. I primi sondaggi danno il partito appena nato in crollo, mentre sia al Senato sia alla Camera il gruppo di Fli si assottiglia: ora a vantaggio dei “Responsabili”, ora in seguito a ritorni alla casa madre del Pdl. I malumori nei confronti del coordinamento di Italo Bocchino, covati e malcelati per mesi, esplodono. Il presidente della Camera – che resiste a Montecitorio, nonostante una situazione oggettivamente anomala – ammette il «momento difficile» e poi attacca frontalmente il presidente del Consiglio, accreditando apertamente l’antico sospetto di una compravendita in corso. Le defezioni al Senato – avvenute in un ramo del Parlamento in cui il blocco Pdl-Lega gode di ampia maggioranza e dove quindi la “campagna acquisti” risulterebbe un dispendio inutile di energie – avrebbero dovuto imporre almeno anche qualche autocritica.
La settimana finisce così: con Berlusconi che attacca la Corte Costituzionale profilando una riforma che ne blindi, nei fatti, il legame con le volontà della politica. Mentre il Premier può contare, adesso, su una maggioranza di 319 parlamentari contro 311. Difficile che questo basti a far ripartire seriamente l’attività di governo dell’economia rientrata improvvisamente nelle parole di Silvio Berlusconi: ma forse il cuore dell’agenda continua a battere altrove.
Guardando indietro non erano in molti a scommettere su di un Premier rafforzato dentro il Palazzo alla fine di questa settimana. E ancora – dato ben più importante – non mancavano i segnali di un principio di disaffezione, del lento scioglimento di un blocco elettorale che lo sostiene in sostanza dal marzo del 1994. È in quel “Paese reale” che lo ha eletto a suo rappresentante che il Cavaliere inizia a scricchiolare. L’antico punto di forza può diventare tallone d’Achille? Forse. Ma chi per primo dovrebbe accorgersene è troppo concentrato a calibrare le uscite sui grandi giornali e i posizionamenti tattici tutti interni in vista di una battaglia che, invece, impone di avere una strategia da usare in mare aperto, dove si conquistano i voti che servono a governare in democrazia. In quel Paese fatto di scuole, uffici, aziende, fabbriche, ospedali che dalla politica – tutta – è sempre più lontano. E la colpa non è del Paese, ma della politica.