Otto miliardi di euro. Tanto vale la raccolta, il trasporto, la gestione e lo smaltimento di tutti i rifiuti urbani prodotti dagli italiani. Una media di immondizia pro-capite ormai costante negli anni: erano 533 Kg per abitante nel 2004, 550 nel 2006 e poco meno, 541 nel 2008, secondo i dati elaborati dal Ministero dell’Ambiente. E nonostante la crescita zero della popolazione, la produzione nel triennio 2006-2008 non scende sotto la quota di 32,5 milioni di tonnellate di rifiuti urbani e 147 milioni di rifiuti industriali.
Una filiera, per quelli urbani, che dà lavoro a 65mila dipendenti per oltre 400 aziende e muove affari milionari perché per smaltire una tonnellata di spazzatura il costo è mediamente di 150 euro, con variazioni a seconda del materiale trattato e della zona geografica. Mentre sono migliaia le aziende piccole e piccolissime per i rifiuti speciali. Ma nonostante gli sforzi delle pubbliche amministrazioni per politiche virtuose, la metà dei sacchi neri nostrani finisce (ancora) in discarica: 15 milioni di tonnellate. E la stragrande maggioranza viene interrata senza trattamento preventivo. Un serio rischio per l’ecosistema secondo gli ambientalisti e uno spreco inutile di risorse per chi costruisce termovalorizzatori che bruciando l’immondizia creano calore ed energia. E siamo ancora lontano dagli obiettivi fissati dalla Unione Europea: arrivare al 2012 con una raccolta differenziata al 65%. Il gap che divide oggi il Paese tra il Nord virtuoso nella raccolta differenziata e il Sud aumenta (vedi scheda). Perché ogni anno viene avviato al riciclaggio e compostaggio solo il 42% del totale, mentre la quota destinata a valorizzazione energetica è del 10%, con 50 inceneritori concentrati nelle regioni del centro e nord della penisola.
Quanto vale il termovalorizzatore. Per la realizzazione di circa 90 nuovi impianti si stimano investimenti di 11-12 miliardi di euro con interessi dei grandi gruppi del settore. I termovalorizzatori sono impianti il cui costo varia dai due ai trecento milioni di euro per 100mila tonnellate di capacità: la metà degli investimenti è sostenuta per la gestione dei fumi dispersi nell’aria. Dal progetto alla messa in opera passano circa 5 anni e la principale fonte di guadagno per chi li costruisce è l’obbligo per i Comuni di conferire immondizia per 20-25 anni pagando gli oneri di smaltimento.
I costi elevati hanno spinto diverse amministrazioni a non puntare su un’unica tecnologia, ma a effettuare la raccolta porta a porta, il recupero, e soprattutto la prevenzione e la riduzione. E così, dalla teoria alla pratica, a novembre la proposta degli industriali del Veneto di sostituire i piccoli impianti con due grandi termovalorizzatori è stata definitivamente bocciata dall’Agenzia regionale per l’ambiente che ha ritenuto il progetto “inutile”. Così, in consiglio regionale, è stato approvato un emendamento che blocca ogni nuova iniziativa fino all’approvazione del nuovo piano per i rifiuti speciali.
Competenze. Le Regioni seguono le normative nazionali e dettano la linea per l’autosufficienza delegando alle province la programmazione e la gestione dei rifiuti in un conflitto permanente di competenze tra i vari enti. Nei casi limite (come per Calabria, Sicilia e Campania) interviene il Governo che istituisce un commissario per l’emergenza.
Le gare di appalto per la gestione del servizio integrato sono di competenza dei Comuni (che garantiscono la gestione e la pulizia delle città) che però devono rispettare le direttive del piano provinciale.
Con il decreto Ronchi-Fitto del 2009, il Governo, in base a una norma comunitaria, ha imposto di mettere a gara tutti i servizi pubblici compresi i servizi di igiene ambientale. La fine della gestione diretta e il ruolo di controllo dei consigli comunali e provinciali risulta sempre più ridotto. Perché a decidere prezzi, strategie e servizi ora sono le ex-municipalizzate, diventate società per azioni.