Due navi che battono bandiera iraniana sono entrate nel canale di Suez per la prima volta dal 1979, anno della rivoluzione komeinista. Destinazione: Siria. Gli egiziani, che controllano lo Stretto, hanno dato il loro consenso e assistono all’evento con benevolenza. Gli israeliani lanciano duri segnali di monito: «Un fatto grave», tuona il premier Benjamin Netanyahu. Il passaggio è il simbolo che una nuova stagione si sta aprendo in Medio Oriente, il segno che i rapporti tra Teheran e il Cairo sono cambiati e il riavvicinamento è in atto. E l’imminente attracco delle navi iraniane alle banchine di un porto siriano è la prova dell’accresciuta influenza dell’Iran in Medio Oriente. Gli equilibri strategici si spostano, l’Iran allarga la sua area di consenso.
Di fronte a questa svolta storica Barack Obama tace. Le rivolte popolari incrinano vecchi equilibri neocoloniali stabiliti da Parigi e Londra ai tempi della prima Guerra mondiale e consolidati dagli Stati Uniti negli anni Settanta, quando Egitto e Giordania siglarono la pace con Israele. Da allora gli Stati Uniti regnano sull’area, pagano il prezzo di miliardi di dollari versati ai molti alleati, sopportano il peso di una costosa flotta militare che regna sulle acque più turbolente del mondo. In cambio, fino a ieri hanno ricevuto un mercato del petrolio stabile.
Improvvisamente quell’equilibrio è stato spezzato da un’ondata demografica di giovani disoccupati allevati dalle tv occidentali. Obama non se lo aspettava, la Cia non lo aveva previsto. Quando le piazze mediorientali hanno cominciato a ribollire, a Obama ci sono voluti alcuni giorni di incertezza prima di assumere il tono che più gli si addice, quello del Martin Luther King che sogna un Medio Oriente democratico. Ma il presidente non appare del tutto credibile. È acceso e sdegnato quando attacca il governo iraniano che disperde le folle di piazza, diventa più morbido e comprensivo quando a fare di peggio sono i suoi storici alleati mediorientali. “Ogni Paese è diverso”, dice Obama. Soprattutto sono diversi gli interessi degli Stati Uniti.
Per esempio, se la legge della maggioranza democratica prevalesse nell’arcipelago del Bahrain, che naviga nel petrolio, per Obama si aprirebbe un problema non facilmente risolvibile. Il piccolo Stato è retto da una minoranza sunnita guidata da Hamad bin Isa al-Khalifa che gli Stati Uniti appoggiano per evitare che il Paese – mezzo milione di abitanti a larga maggioranza sciita – si riavvicini all’Iran. Per Obama è imbarazzante sapere che i blindati e i carri armati usati contro la folla, e i caccia e gli elicotteri che controllano lo spazio aereo, sono stati venduti dagli americani per sostenere il regime, esattamente come era avvenuto nell’Egitto di Mubarak e in molti altri paesi arabi. Ma nel caso del Bahrain, se possible, la questione è ancora più delicata, perché il porto del Paese è anche la base della Quinta Flotta Americana, trenta navi, tra cui due portaerei che battono le coste del Golfo Persico, del mar Rosso e delle coste orientali dell’Africa, controllano i movimenti delle truppe iraniane e danno la caccia ai vascelli pirata che brulicano nella regione.
Se il Bahrain si avvicinasse politicamente all’Iran gli Stati Uniti dovrebbero spostare la flotta in Qatar, dove già hanno una base di appoggio, e traslocare là gli oltre quattromila uomini che oggi mantengono stabilmente a Manama, la capitale dell’arcipelago. Sarebbe una sconfitta senza precedenti che aprirebbe equilibri del tutto nuovi nel mercato del petrolio. Senza contare che l’ascesa al potere degli sciiti in Bahrain potrebbe infiammare la minoranza sciita dell’Arabia Saudita, tutta concentrata nell’area orientale del Paese. Uno scenario destabilizzante per una nazione che siede su un terzo delle riserve di greggio del mondo e che è da decenni l’alleato più stabile degli Stati Uniti.
D’altra parte la democrazia ha i suoi prezzi. Sono stati proprio gli Stati Uniti ad allargare l’area di influenza dell’Iran, abbattendo il dittatore Saddam Hussein in Iraq e consentendo così alla maggioranza sciita di prendere il potere. Suona paradossale agli occhi dell’Occidente, ma le aspirazioni democratiche dei giovani che affollano le piazze arabe stanno ogni giorno di più rafforzando il potere di Teheran. In altri tempi gli Stati Uniti sarebbero intervenuti promettendo un piano Marshall per il Medio Oriente, distribuendo miliardi di dollari per sostenere governi traballanti e rafforzare il proprio ruolo strategico. Oggi non hanno più questa carta da giocare. Le casse sono vuote. La Casa Bianca di Obama è assediata dai repubblicani che pretendono il taglio di bilancio più drammatico della storia d’America, mentre il paese è scosso dalla propaganda antideficit dei Tea Party.
In questa situazione, con i vecchi alleati del Medio Oriente che traballano, Obama sceglie ancora una volta di rafforzare i legami con Israele. All’Onu, la settimana scorsa, ha posto l’ennesimo veto a una mozione di condanna contro i nuovi insediamenti di Israele nei territori occupati. Un pugno nello stomaco per i giovani arabi che scendono in piazza chiedendo democrazia. Anche perché da tempo gli Stati Uniti condannano le scelte del governo israeliano nei territori. Nelle sabbie mobili del nuovo Medio Oriente, Obama ha scelto di ancorarsi al suo vecchio alleato. Se l’ondata popolare che cresce nei paesi arabi avrà la meglio, i nuovi arrivati non glielo perdoneranno.