Se ne sono andati

Se ne sono andati

Raymond D’Addario

(18 agosto 1920-13 febbraio 2011)

Fotografo americano, di Holyoke, Massachusetts, dove è morto d’infarto a 90 anni e sei mesi. La sorte, un buon mestiere, e il fatto di far parte dell’Army Pictorial Service degli Stati Uniti (nel novembre 1945, a 25 anni), lo hanno fatto diventare il primo ritrattista del più celebre e inedito processo della Storia. Nell’antica città bavarese di Norimberga, sbriciolata dalla guerra e dove il regime nazista si era più volte autorappresentato al massimo della sua psicosi scenica.

Senza togliere valore alla fisiognomica, è impegnativo dire che una faccia, una postura, o un modo di esprimersi, anche fra i più biechi, appartengano, induttivamente, a una persona che ha fatto la guerra all’umanità o alla pace fra i popoli. O tutte e due le cose. In genere si viene a saperlo dopo, a conti fatti, comprovati, e possibilmente giudicati. E nel corso del giudizio, de visu, si sbatte contro fisionomie e comportamenti variati (plateali, introversi, mediocri, apatici, a volte anche intelligenti, o solo miseramente furbi), ma da trantran quotidiano applicato al peggio o all’inimmaginabile. Una galleria di caratteri. Reale come la morte decretata da quelle persone per milioni e milioni di altre persone.

Dal 20 novembre 1945 al 1° ottobre 1946, Raymond D’Addario, del New England (un viso rettangolare da sportivo mediterraneo), fotografo decisamente giovane, bravo e, per questo, ingaggiato nei servizi immagine dell’esercito americano (con un primo tirocinio a Pearl Harbor, subito dopo l’attacco giapponese, e un secondo a Londra), riceveva l’incarico ufficiale di seguire col proprio mestiere tutti i passaggi di tutte le udienze del processo di Norimberga. Erano «scatti», in ogni senso. Scatti d’informazione: si spaziava con una macchina fotografica su un’aula di giustizia dove crimini inauditi – in testa i «crimini contro l’umanità», sempre nominati al plurale – prendevano corpo per la prima volta. Di fatto e di diritto: un doppio corpo. La memoria dietro l’angolo di milioni di massacrati (l’umanità ridotta in cadaveri o in cenere) versus uno sparuto drappello di massacatori. E scatti fisiognomici, psicologici, di movimento. Su visi, reazioni, espressioni, pause, scambi sottovoce, deposizioni alla sbarra, testimonianze, confronti (anche personali, spesso durissimi) fra 18 imputati ex gerarchi nazisti presenti in aula – con diversi ruoli e livelli di responsabilità – e una corte alleata con otto giudici (fra principali e sostituti, di Gran Bretagna, Stati Uniti, Unione Sovietica e Francia), e due procuratori titolari dell’accusa, l’americano Robert H. Jackson e l’inglese Hartley Shawcross. Per quasi dodici mesi, D’Addario ha scelto e avuto tutte le visuali di un gruppo di vincitori a volte esausti e orrificati nel mostrare l’evidenza di quei fatti, e due file di imputati (due file a gradino sul banco chiuso, in alto, da una terza linea di Military Police) vinti e anche fortunati: quelli accusati di tradimento (come Hermann Goering) ce l’avevano fatta, consegnandosi, a sfuggire all’Hitler dell’ultima ora, altri erano stati stanati e presi.

Un gruppo di criminali vivi, con un resto di speranza rigorosamente individuale (sfuggire al capestro), da mirare con l’obiettivo mentre variavano le loro autodifese. Sfilavano e risaltavano, per esempio, il vuoto di Joachim von Ribbentrop, la feroce attitudine impiegatizia di Fritz Sauckel, la rigidità smantellata dei generali Wilhelm Keitel e Alfred Jodl, la superbia aggressiva dello stesso Goering (il protagonista fisico di quel processo e di quelle immagini), il mutismo psicotico di Rudolf Hess, l’ansia controllata di Albert Speer, la distanza borghese del banchiere Hjalmar Schacht. Nel fondale di quelle deposizioni, un incrocio di bugie, di reticenze, di dismissione di responsabilità “dirette”, di falsi vuoti di memoria. Scattando migliaia di immagini di quel giudizio (foto anche dei buoni o degli innocenti, come il procuratore capo Jackson, o l’aggraziata interprete tedesca Elly Kupfer), Raymond D’Addario ha messo insieme, senza immaginarlo, un mazzo di risultati. Ha servito il cinema, tutte le fiction che sarebbero state tratte dal processo di Norimberga, e i poster della Storia. Ha fatto vedere, al chiuso, le “varietà dei mali” fatte persone, ha dato una mano ai tedeschi del dopoguerra. E alla loro capacità, in gran parte riuscita, di immunizzarsi. Perché i ritratti degli imputati di Norimberga (ritratti reali) erano la verità del Terzo Reich, tutto quello che l’atletica, e molto nazista, Leni Riefensthal aveva omesso e travestito solo dieci anni prima.
(Da un bel po’ di anni si discute, spesso in modo peloso, sulla legittimità di quel processo di “vincitori”, mentre la fattispecie giuridica dei “crimini contro l’umanità” resta acquisita, citata e attualissima. Nelle più diverse parti del mondo. In questo senso, e per sempre, Raymond D’Addario ha lasciato a tutti una sua versione – o una visione non metafisica – del Giudizio Universale).

Noel Rankin

(1934-25 dicembre 2010, ma la notizia è stata diffusa a metà febbraio)

Giornalista dell’Ulster nordirlandese. Esattamente della cittadina (poco più di un villaggio) di Bushmills, contea dell’Antrim. Dal 1962 al 1995, l’anno del ritiro dalla professione, la Bbc è stata il suo “giornale”. Ma Londra, da sola, non coincideva né col suo stato in luogo, né con la cadenza del suo inglese ulsteriano-scozzese, né col suo carattere di mondo e pluriglotta. È morto a 76 anni di un cancro all’intestino.

È probabile che un qualunque suo coetaneo che abbia lavorato alla televisione argentina, trent’anni fa, se lo ricordi come un inviato, e come un inglese irripetibile. In una circostanza altrettanto non riproducibile. Era la primavera del 1982, quando, da Buenos Aires, Leopoldo Fortunato Galtieri (generale e ultimo dittatore di quel Paese) spediva i suoi poveri e giovanissimi soldati a riprendere – in realtà a occupare – le dirimpettaie isole Malvine, conosciute ufficialmente come Falkland, perché colonie della Corona inglese da un secolo e mezzo. E popolate da pacifici sudditi chiamati kelpers (molti di origine scozzese) che amavano il freddo semiantartico e la tosatura di larghe e docili pecore. Era la stessa stagione in cui, da Londra, Margaret Thatcher, astuta e orgogliosa, rispondeva alla prepotenza nazionalista dell’argentino dichiarandogli una guerra nazionale, tardoimperiale, e protettiva (di quei kelpers che non volevano minimamente essere governati da dei sudamericani oltre a tutto fascistizzanti).

Sempre da Londra, la Bbc mandava a seguire quei fatti di guerra un giornalista già molto stimato e con questi caratteri: idealista, ateo, socialista, capace di parlare bene francese, spagnolo, russo, greco e, un po’ più tirati via, anche polacco e tedesco. Noel Rankin, ex studente alla Queen’s University di Belfast, era un incrocio di maliconia e di intelligenza, ma una sua vitalità allargata al sapere e al mondo lo stornava dalla tristezza e gli perfezionava l’acume. Era il più piccolo di tre fratelli: il maggiore, William, era morto nel 1944, durante un’incursione aerea sulla Germania, mentre Ian, il mediano, era letteralmente scomparso nel 1973: nessuno avrebbe mai più saputo niente di lui. Dopo gli studi, Noel aveva girato l’Europa, la Spagna e la Francia in particolare: dava lezioni di inglese, seguiva dei corsi alla Sorbona, e una volta capitato a Cannes, si iscriveva in un club di cinefili diventando anche amico e correttore occasionale di due persone che se la cavavano male con l’inglese, Pablo Picasso e Luis Buñuel.

Un inviato di questo genere, a Buenos Aires, nel 1982, provava a essere imparziale, quasi cosmopensante, ma senza graffiature al suo spirito critico. Quando i comunicati giornalieri della giunta argentina elencavano i numeri dei caccia Harrier britannici distrutti, lui traduceva alla lettera, sapendo (e forse comunicando in sede) che quei numeri superavano la quantità di bombardieri effettivamente costruiti. E quando Margaret Thatcher giudicava «troppo obiettiva» la copertura giornalistica della Bbc in quel frangente, lui ostentava una certa soddisfazione. E sempre lì, in quei mesi latinoamericani variamente inquadrati, Noel scelse, una volta sola, di farsi passare per un professore irlandese di lingue al Trinity College di Dublino: non c’entrava la copertura della guerra, perché quella sontuosa qualifica professionale veniva offerta, come mezzo di seduzione, a Joyce Ferder, giornalista freelance americana spedita in Argentina da una televisione di Washington a fare lo stesso servizio di Noel. I due si sarebero sposati, e lei ha scritto post mortem – facendolo quasi ascoltare – di un uomo «che poteva recitare la poesia russa, o cantare in spagnolo, o giocare col suo accento Ulster-Scots». E che, senza figli, lasciava soli lei e i due gatti Tarapuss e Snapper.

I libici uccisi durante la loro rivoluzione

(?-febbraio 2011)

Gerard Buffet, un anestesista francese intervistato a Bengasi dal telegiornale di France 24,  ha parlato di ospedali pediatrici dove i bambini erano costretti a stringersi per far posto agli adulti, feriti o in fin di vita, che, per forza di cose, dovevano essere ricoverati anche lì. Ha poi descritto il suo lavoro continuo in quella città, quello che vedeva e faceva insieme a tanti altri cittadini torchiati ma liberi, e definito il tema del petrolio «la question la plus prosaïque».

Nello stesso telegiornale, ma in un giorno diverso, un economista parigino molto ferrato in materia di approvigionamento energetico ha chiuso una fila di valutazioni informate dicendo che il petrolio (in quel caso, il petrolio libico) restava una questione «importante, mais pas indispensable». Si citano queste due persone – due postazioni e due lavori molto diversi – e il loro ridimensionare, in senso lato, il “primato” dell’economia a livelli non onnipotenti, per provare a ricordare in diretta e nella loro possibile verità, le migliaia di libici ammazzati durante la loro rivolta di queste settimane, di oggi. In altre parole: che cosa porta, in uno scatto non contenibile, migliaia di ragazzi e ragazze, o uomini e donne più adulti, a riversarsi sulle strade e sulle piazze, trasformandosi in probabili condannati a morte immediata, o alla tortura, o alla scomparsa? La scena – quello scatto – va vista dall’interno di quel momento, cercando di mettersi, come si dice, nei loro panni o nelle loro visioni immediate.

Ci si fa davvero ammazzare, o si mette nel conto di poterlo essere, pensando al rialzo dei prezzi dei generi necessari o all’esclusione dai privilegi derivati dalla pompatura del greggio? In materia di eroismo, o di coraggio di buttarsi nella mischia e di rischiare tutto per dei valori, l’Iliade e le sue interpretazioni restano una reggia di suggerimenti possibili. Quella storia mitica dice che quella guerra è scoppiata perché un principe troiano, Paride, ha portato via la moglie (Elena) a un re spartano, Menelao. E anche quando la storia sociale e l’archeologia avrebbero poi spiegato (con un bel po’ di immaginazione) che gli Achei e i Troiani si erano massacrati per ragioni di traffici commerciali e di predominio economico, Elena restava intatta come simbolo, come ragione per battersi. Elena è rimasta un senso, o un sentimento, lato. Come la libertà. E allora, per ricordare in diretta le migliaia di libici falciati in questi giorni e il loro gesto, uno per uno, si può anche ascoltare quello che ha scritto, in piena guerra mondiale (1943) Rachel Bespaloff, una delle piu intense e acute studiose di Omero: «Contrariamente a quanto affermano i nostri economisti, i popoli che si affrontano per i mercati, le materie prime, le terre fertili e i loro tesori, si battono prima di tutto, e sempre, per Elena. Omero non ha mentito».
 

Il quadro di questa settimana: «Square of Life» di Andrei Roiter, 2008, acrilico su tela

Le newsletter de Linkiesta

X

Un altro formidabile modo di approfondire l’attualità politica, economica, culturale italiana e internazionale.

Iscriviti alle newsletter