Se ne sono andati

Se ne sono andati

Alexandre Descacq

(25 agosto 1994 – 12 febbraio 2011)

Un ragazzo francese sportivo che non aveva ancora compiuto 17 anni. Da quando ne aveva otto, la sua passione, praticata, era il surf. Una vocazione, una disciplina, e una specialità in cui eccellere da quasi campione. Une étoile, dicono, in genere, i francesi, prendendo il termine dai massimi livelli della danza classica. Non è morto in mare, ma sul suo motorino, travolto da una macchina e da un furgone a uno stop nel centro di Capbreton. Era il 12 febbraio. Un sabato mattina.

Una foto lo fa vedere accucciato su un basso canneto, con la piattaforma del surf protetta dalle mani come se fosse appena stata piallata, e una mezza tuta di gomma, quasi una mezza salopette impermeabile. Il ragazzo e il mare, si potrebbe dire con una parafrasi la meno retorica possibile: le onde al suo fianco sono radenti, basse, e in pace. Il contrario di quando pettinava, in equilibrio su un pezzo di legno, i cavalloni di schiuma. Un’immagine della gioventù che può fare paura e invidia. Ma il tifo sportivo e libero per questi funamboli che si divertono concentratissimi, è fuori discussione. E quando ce la fanno, il terrore dello squalo improvviso o dell’affogamento, diventano rare eventualità statistiche.
Alexandre, nato nell’isola della Réunion nel 1994, era un ragazzo dell’Oltremare francese nell’Oceano Indiano, e lì, nel 2008 (a 14 anni) aveva conquistato la prima medaglia come campione nel torneo Réunion Minimes, circuito pro junior. Poi, nel 2009, il secondo posto nella finale europea del King of the Groms a Zarauts, in Spagna. E un altro balzo delle sette leghe il 5 e il 6 febbraio scorsi, nel mare (oceanico) bretone di Capbreton: il ragazzo arrivava in semifinale nella prima gara Junior Winter, aperta ai minori di 21 anni.
Morendo a neanche 17 anni, violentemente e su un pezzo d’asfalto urbano, sul suo scooter,  a un incrocio, il colpo d’occhio sulla sua vita diventa disarmato e fisico come l’adolescenza: si vede, o si immagina, un ragazzo che si butta con qualunque tempo del mare e del cielo. Provando a cavalcare il suo orizzonte.

Maria Victoria Altmann Bloch-Bauer

(18 febbraio 1916 – 7 febbraio 2011)

Signora americana di quasi 95 anni, era nata austriaca ed ebrea a Vienna il 18 febbraio 1916, nove mesi prima della morte dell’imperatore Francesco Giuseppe. La sua famiglia d’origine, Bloch-Bauer, era fra le più conosciute nella capitale per la cultura, la ricchezza (industriali dello zucchero), il gusto e la committenza artistica. In particolare verso «l’arte nuova». In nome di una sua bellissima zia paterna, e di una specifica memoria della Shoah, Maria ha dato battaglia, fra gli ottanta e i novant’anni, allo Stato austriaco. E l’ha vinta. È morta nel sonno il 7 febbraio nella sua villa californiana di Cheviot Hills, Los Angeles.

Nell’era del testimone (sempre meno fitta per la morte progressiva dei testimoni) anche un quadro, con la sua storia e i suoi passaggi, può offrire una deposizione utile alla giustizia. In esteso, alla verità accertata e possibilmente stabile dei fatti. Dei due ritratti di Adele Bloch-Bauer (la zia di Maria) dipinti da Gustav Klimt nel 1907 e nel 1912, quello più celebre, il primo, dorato come un mosaico di Ravenna e di una bellezza quasi extrasociale, potrebbe deporre idealmente in questo modo: «Per dove, come, e quando sono nato, rappresento quella visione di Vienna ebraico-borghese ai livelli più alti e minoritari, ammirata con diffidenza, splendente di novità e di malinconia, ignara del tempo breve che la Storia politica avrebbe riservato al mio ruolo, al mio decoro e alla mia immagine». 
Per come sono proseguite le cose, quel ritratto potrebbe aggiungere di essere stato sequestrato, insieme ad altre opere, dalla peggior cronaca nera di quella Storia (il nazismo razziatore oltre che pluriomicida), per diventare, dopo la catastrofe, il quadro-principe del viennese Palazzo del Belvedere, e uno dei dipinti più quotati al mondo (135 milioni di dollari nel 2006). Di fronte al quale ci si poteva meravigliare per motivi anche extraestetici: perché quella donna incastonata nell’oro simboleggiava una fisionomia d’epoca, ma a sé stante (il quadro veniva chiamato «La Gioconda austriaca»), e perché veniva esposta come proprietà legittima di un Paese già iperantisemita, che si sarebbe poi rimesso in buona mostra grazie a un cancelliere internazionale, socialista ed ebreo (Bruno Kreisky) e al creatore di una costante testimonianza attiva della Shoah (Simon Wiesenthal). Nella nuova Repubblica austriaca (indipendente dal 1955), Adele Bloch-Bauer di Klimt era una gloria da coltivare anche come pentimento e dopo un denso strato storico di coscienza nera. Nella vita, lei era stata la giovane moglie di Ferdinand Bloch-Bauer, ceco e primo zuccheriere dell’Impero, e nel loro palazzo, al numero 18 di Elisabethstrasse, interloquivano, fra gli altri, e oltre a Klimt e ai “secessionisti”, Arnold Schönberg, Oskar Kokoschka, Gustav Mahler, e Karl Renner (che sarebbe diventato primo cancelliere – socialdemocratico – del nuovo Stato nel 1918, e poi primo presidente dal 1945 al 1950). Adele moriva a 43 anni di meningite nel 1925, e due anni prima auspicava per iscritto che i suoi ritratti, e altri tre dipinti di Klimt, potessero diventare opere nazionali, da esporre nelle gallerie di Stato. Un desiderio patriottico e mecenatizio, ma la proprietà, dopo la sua morte, restava in famiglia, titolare Ferdinand, il marito (che li aveva pagati).

A quasi 90 anni, Maria, la nipote, intervistata da più giornalisti, avrebbe avuto molti ricordi al sole californiano di Cheviot Hills: la grazia e i gioielli della zia Adele (una sua collana veniva razziata, dopo l’Anschluss, da Goering in persona che l’avrebbe regalata a sua moglie per un compleanno), il matrimonio con Fritz Altmann, industriale tessile, il viaggio di nozze a Parigi e a Sankt Moritz, dove, alla radio, la coppia ascoltava la notizia dell’annessione austriaca al Reich. 
E poi una successione di fatti di famiglia (e un’antologia degli aspetti anche predatori del nazismo): due ufficiali della Gestapo che si presentavano improvvisi a casa sua, a Vienna, depredandola subito dell’automobile e di quasi tutti i gioielli, l’internamento di Fritz a Dachau come ostaggio rilasciabile solo dopo la consegna di tutta la proprietà industriale (sua e del fratello Bernhard), la rapina dei quadri klimtiani, ordinata nel 1941, con tanto di lettera amministrativa che apriva con «Heil Hitler». E un’osservazione sugli austriaci di allora: «Oggi si dice che l’Austria è stata una vittima del nazismo. Non lo era: le donne lanciavano fiori, le campane andavano a pieno ritmo. Erano in giubilo e a braccia aperte». E, una volta depredati di tutto, la salvezza negli Stati Uniti (via Inghilterra) per Fritz e Maria Altmann. Anche Ferdinand Bloch-Bauer ce l’avrebbe fatta, morendo nel 1946, dopo aver lasciato eredi di quello che gli restava i suoi tre nipoti: un uomo e due donne, fra cui Maria. I cinque quadri restavano in Austria, pubblici: le due Adele Bloch-Bauer e tre paesaggi. Uno di questi si chiama Birkenwald/Buchenwald. Un Buchenwald del 1903, ancora non sinistro.

Nel 1998, Maria Altmann aveva 82 anni, una memoria indefettibile, e un brillante avvocato americano con un nome austriaco e di famiglia: Randol Schoenberg, suo nonno era Arnold Schönberg. L’avvocato veniva incaricato della causa civile nei confronti dell’Austria per la restituzione di quei quadri agli eredi Bloch-Bauer. Maria intentava la causa. La battaglia ha avuto un lungo corso, fino al 17 gennaio del 2006. In uno dei suoi passaggi si è anche chiamata «Republic of Austria versus Altmann». Un primo grado, davanti a una corte di giustizia californiana, aveva dato ragione, nel fondo, alla parte Altmann Bloch-Bauer. Lo Stato austriaco faceva appello argomentando che i giudici americani non avevano competenza nei confronti di un Paese sovrano. Verso la fine, nel 2004, si era pronunciata la Corte Suprema degli Stati Uniti: con otto voti a favore contro uno, affermava il diritto di una cittadina americana di citare in giudizio uno Stato estero. Alla fine, e senza appello, un tribunale arbitrale costituito a Vienna da tre giudici scelti dalle due parti ha stabilito la restituzione dei quadri agli eredi, e quindi la loro emigrazione (in fondo naturale) negli Stati Uniti. Era successo, come ha sintetizzato l’avvocato Schoenberg, «che quello di Adele era solo un auspicio del 1923, e che comunque si poteva fortemente dubitare che avrebbe avuto lo stesso desiderio nei confronti dell’Austria del dopoguerra. E che rendere agli eredi quello che a loro apparteneva era tutto quello che si poteva fare per onorare la memoria di quelle persone». La memoria, in esteso, nell’era del testimone sempre meno densa di testimoni.
(Per l’informazione, l’Adele Bloch-Bauer dorata del 1907, messa all’asta da Christie’s, è stata comprata per quei 135 milioni di dollari da Ronald Lauder – cosmetici – e si trova nella magnifica collezione della Neue Gallerie di New York; l’altra Adele del 1912 ha raggiunto, sempre da Christie’s, e sempre a New York, gli 88 milioni di dollari; mentre la cifra d’asta dei tre paesaggi – 192,7 milioni di dollari – è stata suddivisa fra diversi eredi. Chi, di fronte a queste cifre e ai loro destinatari risarciti dopo 60 anni, fosse tentato dall’ironia o da peggiori retropensieri, dovrebbe tener presente che Goering e i suoi non avevano l’abitudine di mettere all’asta e comprare. Ricattavano e rubavano. Prima di uccidere).

Henri Maurel

(1952-16 febbraio 2011)

Rivoluzionario parigino (d’adozione) del nostro tempo. Con gioia di vivere, decisione, ed estro ha applicato i tre principi-marchio dello Stato francese – Liberté, Egalité, Fraternité – a qualche battaglia fondamentale per vivere meglio, se non tutti i giorni, almeno quando si cerca di farlo. È morto di meningite, a 58 anni, il 16 febbraio. A Parigi.

In qualche foto appariva come un impasto fra Steven Spielberg e Michel Foucault, e in qualche modo è stato un uomo di spettacolo, di denuncia, e d’azione. Il tutto, con una solida base di pensiero, e di immersione nei complicati tempi d’oggi. Oggi, e non solo in Francia, a lui devono qualcosa i milioni di persone che non tollerano di essere squadrati da capo a piedi per la loro sessualità (soprattutto omosessuale), e le folle, soprattutto giovanili, appassionate di musica techno (ritmo e significati). Come fatto di libertà, ma anche di egalité nei confronti delle altre musiche variamente complesse. 
A Henri Maurel deve molto anche lo Stato francese, la République, che con lui ha fatto un bel passo avanti nel tema mai esaurito del diritto di famiglia. I fatti, qui stringati, sono questi. Henri arrivava a Parigi oltre trent’anni fa (era nato al Sud, ad Albi dans la Tarn, nel 1952) con una laurea in Storia, e un debutto di lavoro nella pubblica amministrazione (alto funzionario: lo Stato francese ha ogni tanto sfoderato, senza prevederlo, i suoi rivoluzionari). Ma l’azione umanitaria, per dirla alla larga, faceva parte del suo patrimonio innato, e la prima sperimentazione attiva di quell’attitudine lui l’applicava lavorando nelle iniziative della Croce Rossa. 

Il centro della sua battaglia, tutta da mettere in piedi, da elaborare, ha una data: il 1985, quando Henri crea il club Le gais pour la liberté, con l’obiettivo, ovvio ma non semplice, di difendere le unioni gay. Dove il termine liberté voleva anche dire libertà di essere contenti per come si era fatti, dei propri gusti, e della propria vita (la gayness è anche un progetto di gioia, o al minimo, di benessere con se stessi e i propri amati, o amate, oltre che di pride, di orgoglio). Si affiancava poi la nascita di Radio FG (Fréquence Gaie) descritta da Henri come «uno spazio di libertà, di affermazione di un’identità omosessuale, e di parola. Un ascolto di cose nuove, diverse, alternative». Tutto chiaro, nella Francia, ufficialmente alternativa, della presidenza socialista. Tutto importante e da muovere, soprattutto in quell’ambito della libertà personale, privata. E anche politica, da riconoscere per legge. La legge, rivoluzionaria, che istituiva i Pacs, sarebbe nata in quel tempo giusto, anche perché Henri Maurel, lavorando a fianco di Yvette Roudy (titolare del dicastero dei Diritti della Donna), aveva inventato l’idea e il progetto del «Partenariat civil». Succedeva nel 1989: un seguito naturale del diritto ai Diritti dell’uomo (e della donna), a due secoli esatti dai Fatti dell’Ottantanove. Per chiudere in musica, l’inventiva di Henri ha coinciso anche con l’ideazione (insieme a Jack Lang, ministro della Cultura ai tempi di Mitterand, e ad altri) della Techno Parade, dal 1998. Uno spettacolo di giovani francesi in piazza, contenti di incrociare, attraverso la techno, i propri orgogli storici.

Il quadro di questa settimana: «Il volo» di Idakrot (Ida Gallo), collage

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