ROMA – Se avevamo bisogno di una ulteriore prova dello stato di arretratezza del Paese, della nostra autoemarginazione, del nostro essere di serie B, accartocciati sulle nostre miserie, da ieri ogni residuo dubbio è stato fugato. E sì, perché mentre i leader delle quattro nazioni più potenti impegnate nell’azione di guerra in Libia si autoconvocavano in una videoconferenza, il nostro presidente del Consiglio era protagonista di un’altra giornata ridicola, trascorsa al Palazzo di Giustizia di Milano a difendere i propri interessi, tra silenzi in aula, morsi al cioccolato bianco, battute su un’avvocatessa carina, e infine la pagliacciata di salire sul predellino di un’automobile (quanto gli piace questa cosa, chissà perché) per salutare quei quattro disperati che erano lì a inneggiare a lui. Mentre altrove si decidevano non dico le sorti del pianeta, ma comunque si parlava di situazioni un po’ più complesse del processo Mediatrade.
Non siamo antiberlusconiani nel senso ortodosso, chi ci legge lo sa, difficilmente ci vedrete a un compleanno del Fatto quotidiano a festeggiare con i professionisti della critica al Cavaliere, epperò siamo ancora legati alla nostra Italia. Ed è triste constatare, ancora una volta, dopo aver rimediato una figuraccia persino con Gheddafi, quanto sia scarsa la considerazione che ha di noi il consesso internazionale (che pena le dichiarazioni del nostro ministro degli Esteri Frattini a proposito dell’esclusione). E fin quando si tratta di un editoriale dell’Economist e o del Post, passi pure, ma quando si tratta di stabilire la strategia da adottare in una guerra condotta contro uno Stato che ci sta di fronte allora c’è di che indignarsi, preoccuparsi e alzare la voce.
E Berlusconi è un problema, non c’è dubbio. Il più evidente. Enorme, se volete. Però lo è anche il resto. Lo siamo anche noi. Se in un giorno come quello di ieri il direttore di Repubblica Ezio Mauro prende carta e penna per scrivere un editoriale e ignora l’esclusione dell’Italia dalla videoconferenza concentrandosi invece sull’ospitata di una finta terremotata all’Aquila, vuol dire che la questione è un filo più articolata (sì, la conosciamo la risposta, è sull’indottrinamento catodico che si costruisce il consenso, ma non ci ha mai convinti). La questione, dicevamo, riguarda noi, la nazione, gli italiani. Non solo il Cavaliere. Sarebbe troppo facile così. Forse ieri era il caso di chiedere le sue dimissioni. O di porgli qualche domanda. Forse non dieci, magari cinque.
Anche Angela Merkel sta vivendo il suo momento di maggiore difficoltà politica, eppure viene convocata al vertice. Perché rappresenta uno Stato con la esse maiuscola. Lo stesso dicasi per Sarkozy. A noi, in fondo, non ce ne frega più di tanto. A noi, questa è l’amara verità, interessa di più sapere che cosa ha detto Iris Berardi al telefono col suo amichetto, a noi interessa di più la battuta del premier sul Bunga Bunga in Tribunale, a noi interessa di più criticare il regista Roberto Faenza perché il suo film sulla vita del Cavaliere non è eccessivamente anti-Silvio (ma che doveva fare, oltre a tracciarne in maniera impietosa il carattere ridicolo e farsesco, chiederne l’impiccagione?).
Berlusconi ha anche ridotto l’Italia in questo stato. Vero. Ma l’Italia ha mostrato di non avere gli anticorpi. Di non averli più. Se li avesse avuti, un personaggio simile – che investe denaro raccolto in modo quantomeno ambiguo, che racconta barzellette, che vive nel totale spregio delle regole, che ha come unico strumento per conquistare le donne il denaro, e potremmo andare avanti all’infinito – ci sarebbe scivolato addosso. E invece l’Italia gli si è consegnata dopo averlo lasciato al Governo appena sette mesi nei primi sette anni. Questo nessuno lo ricorda. E le tv c’erano pure dal ’94 al 2001. Poi si è arresa. E le conseguenze le pagheremo tutti. Magari un po’ meno i professionisti dell’antiberlusconismo. Che vivono, in fondo, anni felici. E potranno sempre dire: ve l’avevamo detto.