BRUXELLES. Dopo la plenaria di Strasburgo dello scorso 21 ottobre, un gruppo di europarlamentari, rappresentanti di Confindustria e del governo italiano hanno stappato bottiglie di champagne. Dopo sette anni di faticosi negoziati, limature e periodi di stand-by, finalmente è stato approvato dal parlamento europeo il regolamento sul Made in, che prevede l’obbligo di etichettatura di origine sulle merci provenienti dai Paesi extra-europei.
«Una vittoria straordinaria», che «rafforza la nostra posizione negoziale in vista del Consiglio europeo», commentò soddisfatto Adolfo Urso, allora viceministro allo Sviluppo Economico e padre adottivo del provvedimento. Un passaggio «importante» per tutelare l’industria manifatturiera italiana, secondo (l’allora) Ministro per le Politiche Comunitarie, Andrea Ronchi.
Ora, tra gli ambienti di Confindustria a Bruxelles circola una lieve inquietudine. Prima di dirsi approvata in via definitiva e diventare così applicabile a tutti gli effetti, la proposta sul Made in deve passare l’esame del Consiglio europeo. Ovvero dei ministri competenti dei 27. Servirà tutto il peso negoziale che l’Italia riuscirà a portare. Purtroppo la legge è appena rimasta orfana, non solo di Urso, che aveva seguito da vicino il provvedimento e ne aveva fatto un punto d’onore, ma anche di Ronchi, che da ministro per le Politiche comunitarie era un altro interlocutore rilevante. Dal 15 novembre 2010, infatti, i due esponenti di Fli si sono dimessi. Per colpa della situazione ingessata di casa nostra, quello che può considerarsi un successo dell’Italia in sede europea, potrebbe di nuovo arenarsi. Un paradigma di quello che potrebbe succedere a tante altre occasioni alla Ue che richiederebbero una presenza forte e invece hanno alle spalle un governo in crisi.
È un peccato, perché il provvedimento sul Made in rappresenta un successo dei nostri negoziatori, che ha visto un’azione particolarmente efficace – seppure lunga e tormentata – da parte di tutte le forze in gioco. Dagli industriali che hanno creato un efficiente canale con i nostri europarlamentari, che sotto la guida di Cristiana Muscardini (An), Gianluca Susta (Pd) e Niccolò Rinaldi (Idv), hanno lavorato in maniera bipartisan per fare breccia anche tra le ostilità di Germania, Regno Unito e Paesi scandinavi, fin da principio ostili al provvedimento.
Il dossier sul made in circola a Bruxelles dal lontano 2003, quando era stato proposto per la prima volta sotto la presidenza italiana, ed aveva iniziato così il suo iter fra un edificio e l’altro dei centri decisionali europei, diventando proposta formale della Commissione nel 2005. In un’ottica di trasparenza per il consumatore, il provvedimento era pensato per tutelare una serie di prodotti che pesano sul Pil italiano – tessile, abbigliamento, calzature, ceramica, oreficeria, viti e bulloni, utensileria, coltelleria, vetro, rubinetteria e pneumatici – facendo da scudo all’invasione cinese.
Discussa attivamente tra 2006 e 2007, la proposta sul Made in non è mai riuscita a coagulare una maggioranza attorno a sé in Consiglio, tanto che nel 2009 l’allora commissario al Commercio Catherine Ashton aveva presentato un “option paper” come invito formale a sbloccare la situazione. Inutile. A dicembre dello stesso anno è entrato in vigore il trattato di Lisbona, che ha modificato lo status della politica commerciale facendola rientrare fra le materie su cui si delibera in co-decisione (Parlamento e Consiglio). Punto a capo. Ed è scattato il certosino lavoro di negoziazione dei nostri europarlamentari, che sono riusciti a strappare il sostegno della Francia e aperture da parte della Germania. Con la cancellazione dell’obbligo di etichettatura per alcuni prodotti – farmaceutici e occhialeria – una validità temporale del provvedimento ridotta a 5 anni, la proposta è stata approvata. E ora che ce l’ha quasi fatta, è rimasta orfana.
Mentre l’Inghilterra, quando si discute di politica commerciale, è pronta a mandare a Bruxelles il ministro degli Esteri, l’Italia rischia in questo caso di mandarci un rappresentante diplomatico, come sta già accadendo per un altro dossier che ci sta a cuore e in cui manteniamo una posizione di splendido isolamento, quello sul brevetto europeo. Dagli atti delle ultime riunioni dei ministri dell’Istruzione, dove si è discusso anche della questione della lingua del brevetto, risulta che a spingere sulla posizione dell’Italia non si sia mai visto il ministro competente, Mariastella Gelmini.
A complicare le cose ci si è messa anche una certa tendenza di Roma a fare i conti senza l’oste. Il 17 marzo 2010, il parlamento italiano ha approvato in tempi record – e senza consultare Bruxelles – la cosiddetta Reguzzoni-Versace, una misura a tutela del Made in…Italy. Lo stop è arrivato immediatamente. Non solo, ha sottolineato la Commissione, il provvedimento rischia una procedura di infrazione per violazione del diritto comunitario sul mercato interno. Anche la procedura stessa, quella di approvare un regolamento tecnico senza prima notificarlo alla Commissione europea, è contraria alle regole Ue.
L’odissea del regolamento sul Made in potrebbe concludersi già entro la metà dell’anno, visto che è stata inserita nella lista di priorità dell’attuale semestre di presidenza ungherese. Potrebbe essere una bella iniezione di autostima per l’Italia, che in questo caso ha abbandonato un certo bizantinismo per spingersi verso un lobbying più efficace e moderno. Rimane da chiedersi, chi ci metterà la faccia per il tocco finale?