L’allarme radiazioni, in Giappone, non s’arresta. Oggi l’ultimo aggiornamento dell’agenzia locale Kyodo News: «Tracce di iodio radioattivo sono state trovate nell’acqua di rubinetto a Tokyo e in altre aree limitrofe. Livelli di radioattività “superiori ai limiti legali” sono stati riscontrati nel latte prodotto nei pressi della centrale nucleare di Fukushima e negli spinaci coltivati nella vicina prefettura di Ibaraki. Lo ha affermato il portavoce del governo giapponese Yukio Edano in una conferenza stampa». Anche l’Aiea – l’Agenzia internazionale per l’energia atomica – riferisce che il governo giapponese ha imposto il blocco alla vendita di cibi dalla prefettura di Fukushima. E la stessa agenzia Onu per il nucleare ha aggiunto «che le tracce di iodio radioattivo nel cibo possono determinare rischi a breve termine per la salute». Ma quale rischio si corre davvero nell’ambiente limitrofo agli impianti di Fukushima?
«Le informazioni ufficiali non dicono molto e si fa fatica a fare valutazioni», commenta Giuseppe Sgorbati, fisico nucleare dell’Agenzia lombarda per la protezione dell’ambiente e responsabile dell’emergenza Chernobyl nel 1986 per la Regione Lombardia. «È del tutto normale che vi sia un rilascio di contaminazione ma non è un fatto da temere, quanto, piuttosto, da tenere sotto controllo», prosegue. Il pericolo maggiore ora arriva dall’irradiazione della nube che si sta spostando verso est nell’Oceano Pacifico e dall’inalazione di sostanze radioattive, da parte della popolazione. Per il Governo il limite di sicurezza dalla centrale rimane di 20 chilometri; per gli americani, invece, la distanza di sicurezza è da collocare entro gli 80. Nessun pericolo di evacuazione – pare – della megalopoli di Tokyo, con i suoi 13 milioni di abitanti.
«È ancora più complesso – continua Sgorbati – effettuare una stima sulle conseguenze ambientali dell’incidente, fuori il recinto degli impianti. La decisione di far evacuare la popolazione che risiede entro un raggio di venti chilometri, attorno agli impianti, e di ordinare a quella compresa entro i dieci, di stare al riparo dentro le proprie case, non è stata assunta sulla base di dati specifici, ma solo in funzione cautelativa, come primo intervento». In realtà, le rassicurazioni del primo ministro Naoto Kan sono state smentite dai fatti: già nelle ore successive allo tsunami (11 marzo) l’azione di raffreddamento con l’acqua marina faceva comprendere la gravità della crisi nucleare. E martedì 15 il ministero della Sanità giapponese ha innalzato il limite legale della quantità di radiazione alla quale ogni lavoratore può essere esposto: 250 millisievert: cinque volte l’esposizione massima consentita per i lavoratori americani degli impianti nucleari.
Ieri l’ennesima conferma: le autorità giapponesi hanno alzato il livello d’allarme previsto per la centrale nucleare di Fukushima: dal 4 al 5, secondo quanto riferisce l’Aiea. Con l’ammissione che nei reattori 1, 2 e 3 il nocciolo è parzialmente fuso. I contenitori che racchiudono le barre di combustibile sarebbero invece integri, secondo fonti italiane a diretto contatto con il gestore della centrale di Fukushima 1 (Tepco) e l’Autorità giapponese per la sicurezza nucleare e industriale.
Ora la maggiore preoccupazione arriva dalla piscina di combustibile radioattivo del reattore 4 completamente esposta all’aria aperta. «Qui se il raffreddamento si interrompe – spiega Sgorbati – centinaia di barre di combustibile ancora integre potrebbero fondersi e la radioattività andrebbe dispersa nell’atmosfera». Ecco il motivo del continuo getto d’acqua: l’azione di raffreddamento, 24 ore su 24, dei reattori della centrale di Fukushima, è volta a tentare di diminuire la temperatura del combustibile radioattivo.