Mentre ministri e manager, banchieri di sistema e industriali tentano di impedire che la Parmalat finisca sotto il controllo della francese Lactalis, la migliore lezione di difesa dell’italianità delle imprese è stata impartita da una banca internazionale e da un gruppo di investitori stranieri. Non una lezione teorica ma un caso-pilota che ha portato un ramo d’azienda poco redditizio, venduto sei anni fa da un gruppo italiano oberato dai debiti, a diventare il primo produttore mondiale di cavi elettrici e in fibra ottica. Dalle retrovie della Pirelli alla frontiera tecnologica del trasporto dell’energia e delle comunicazioni globali.
Il successo della Prysmian, la multinazionale milanese dei cavi sembra in effetti pensato a tavolino per mettere in crisi le più solide convinzioni del ministro Giulio Tremonti circa la rapacità della finanza internazionale e il significato di “italianità” delle imprese. Neanche a farlo apposta mente e mano del progetto è stata la banca simbolo dell’avidità dei banchieri senza volto: la Goldman Sachs. Una ditta spesso presa di mira dal sarcasmo del ministro dell’Economia, lo stesso elargito anche al governatore Mario Draghi (che in Goldman ha lavorato). All’indomani della frode di Madoff, sfotteva i banchieri centrali: «Meno male che c’era il Financial Stability Forum (presieduto da Draghi, ndr). I ragazzi hanno fatto un grande lavoro – aveva detto Tremonti all’Ecofin di Parigi, dicembre 2008 – Viviamo in un mondo strano dove si salva la banca d’affari Goldman Sachs e si fanno fallire le fabbriche».
E invece Prysmian ha il piccolo inconveniente di mostrare il contrario: le investment bank possono fare eccellenti affari e, insieme, le fabbriche si possono salvare e far crescere. Di recente, il Sole 24 Ore ha calcolato che, in un arco di cinque anni, dal 2005 al 2010, passando per la quotazione a Piazza Affari nel 2007, la Goldman ha moltiplicato per dieci l’investimento iniziale di 265 milioni di euro. Ma la storia recente di Prysmian è molto di più che una brillante operazione di private equity.
Quale lezione se ne può trarre? La prima è che esagerare con la leva finanziaria non paga: quando rileva la divisione cavi della Pirelli, incapace di sostenerne lo sviluppo a causa dei debiti contratti per acquisire il controllo della Telecom, la Goldman non si lascia prendere troppo dallo spirito dei tempi. L’operazione chiusa nell’estate 2003 (265 milioni di capitale di rischio, 1.050 milioni di debito) ha una leva finanziaria moderata per l’epoca: i debiti sono 4,8 volte il margine operativo lordo dell’azienda. Un livello che oggi è ai limiti della sostenibilità, ma che nel 2005 poteva essere giudicato quasi prudente.
La seconda è che serve una visione industriale: mentre l’imprenditore italiano Tronchetti insisteva a dissanguarsi con i telefoni, Goldman capisce che la tecnologia dei cavi è una miniera. Il terzo insegnamento è che le imprese sono fatte sì di capitali ma soprattutto di persone: sapere cogliere il valore di queste fa la differenza. Perciò Goldman si tiene stretto il management italiano guidato dall’amministratore delegato Valerio Battista, l’ingegnere che nel 2002 Tronchetti sposta dagli pneumatici ai cavi con il compito di ridurre gli stabilimenti (da 63 a 52), il personale (da 19mila a 12mila unità) e i costi fissi (nel periodo 2002-2004 da 700 a 400 milioni). Né la banca icona di Wall Street si lascia tentare da progetti di spezzatino. Perfettamente in linea con le considerazioni sul mantenimento dell’integrità dell’impresa e dei centri decisionali in Italia, tornate alla ribalta nella polemica sull’italianità del latte.
Vite parallele quelle di Parmalat e di Prysmian. Così simili, così diverse. Entrambe multinazionali, la prima presente in 16 Paesi, l’altra in 50; entrambe public company e con un fatturato di circa 4,5 miliardi di euro a testa a fine 2010. Tutte e due con 2mila dipendenti in Italia. Il gruppo alimentare guidato da Enrico Bondi realizza circa il 22% delle vendite totali in Italia, l’ex Pirelli Cavi poco meno del 10% del suo fatturato a fronte di otto stabilimenti, di cui due (Pozzuoli e Battipaglia) sono i centri di eccellenza, dove vengono prodotti i cavi a maggiore valore aggiunto (cavi elettrici sottomarini e fibre ottiche). Dal porto di Napoli, dove si approvvigiona dei cavi prodotti nei due stabilimenti campani, la «Giulio Verne» (chiaro omaggio all’autore francese di Ventimila leghe sotto i mari), la nave posacavi più grande al mondo, e fra i principali attivi della Prysmian, salpa verso ogni angolo del mondo, capace di posare cavi sottomarini fino a una profondità di 2 mila metri di profondità. Cavi capaci di trasportare elettricità fino a 500 mila volt (l’ultimo record raggiunto dai ricercatori del gruppo). Nei cinque anni 2006-2010, il gruppo guidato da Battista ha investito 100 milioni l’anno per potenziare e migliorare la propria capacità produttiva, per un totale di mezzo miliardo di euro, circa 50 milioni annui in ricerca e sviluppo, quasi 3 mila brevetti all’attivo.
In Parmalat l’attivismo dei tre investitori esteri per cambiare radicalmente i vertici della società è stata accolta come lesa maestà manageriale e attacco all’italianità: la scintilla che ha acceso la battaglia di Collecchio. C’è chi sospetta che i tre fondi Mackenzie, Skagen e Zenit siano stati i cavalli di Troia della Lactalis (cui hanno venduto il loro 15%). Al momento, e salvo novità dalla Procura di Milano che sta indagando sugli acquisti dei francesi, restano solo illazioni, mentre è un dato di fatto che tutti e tre fossero storici azionisti di Collecchio e che avessero sostenuto Bondi, prima di rompere per divergenze strategiche.
La presenza degli investitori finanziari internazionali è la forza di Prysmian, che ha permesso al gruppo di crescere e acquisire società cogliendo le opportunità di acquisizioni. Così all’inizio del mese, con il sostegno dei suoi azionisti, che rispondono ai nomi di Blackrock, Schroder Investment Manager, Lazard, Jp Morgan e molti altri (il finanziere Giovanni Tamburi è l’unico italiano del mazzo), con una quota del 5%, il gruppo guidato da Battista ha concluso l’acquisizione del concorrente olandese Draka.
La società è diventata leader globale del settore, davanti alla francese Nexans (l’ex Alcatel Cavi), con un fatturato consolidato di 7 miliardi di euro (dati pro-forma a fine 2010), 20 mila dipendenti (dai precedenti 12mila) e 90 stabilimenti. Per il 100% di Draka, che possiede tecnologie avanzate nella fibra ottica, sono stati offerti 840 milioni di euro tramite Opa: metà in contanti metà in nuove azioni Prysmian. Titoli che gli azionisti della Draka hanno accettato di buon grado. Sanno che il quartier generale di Viale Sarca a Milano (400 dipendenti addetti alle funzioni di governo del gruppo) pratica la stessa filosofia: crescita industriale & risultati finanziari. Nel capitale sono perciò spuntati nuovi soci istituzionali: Franklin Templeton, Norges Bank, Fidelity e Flint Holding. Quest’ultima è il veicolo d’investimento della famiglia Fentener van Vlissingen, storica dinastia industriale dei Paesi Bassi, già socio di riferimento della Draka (aveva il 48% del capitale) e ora primo azionista di Prysmian con il 7 per cento.
Battista, comunque, è ancora l’amministratore delegato: finché consegna risultati, perché mai un socio estero dovrebbe volerlo sostituire con un altro manager “di fiducia”, magari col suo stesso passaporto ma meno bravo? Tutto è accaduto senza drammi, senza mal di pancia, senza allarmi: business as usual. O, per gli amanti del patriottismo industriale, italianità a mezzo di capitali stranieri.
Ieri, a Londra, all’incontro con la comunità finanziaria della City organizzato da Deutsche Bank, la multinazionale dei cavi ha raccolto le sue soddisfazioni. Con il suo miliardo e 400 milioni di liquidità impiegata in titoli di Stato italiani, francesi e tedeschi, invece, Parmalat si contorce per non essere ridotta alla filiale italiana della Lactalis. Nessuno però sembra preoccuparsi degli azionisti di minoranza scettici sui progetti francesi, o disinteressati verso quelli che (forse) arriveranno dalla cordata italiana organizzata Intesa Sanpaolo. Di offerta pubblica d’acquisto nemmeno a parlarne. L’Italia non è un paese per risparmiatori.