Per capire la politica estera italiana nei confronti della Libia è indispensabile partire dal testo dell’accordo con Tripoli del 30 agosto 2008 firmato proprio a Bengasi, la roccaforte dei ribelli. A pensarci oggi la coincidenza strappa un sorriso amaro. Una delle questioni che fecero più discutere fu l’introduzione nel trattato del divieto di compiere reciprocamente atti ostili. Ciascuna parte si impegnava a non compiere atti di guerra nei confronti dell’altra e a non consentire l’uso del proprio territorio da parte di altri che ne stessero compiendo. Fu subito messa in dubbio la compatibilità con il Trattato Nato, e non mancò qualche protesta da parte anglo-americana, ma tutto si sopì, perché l’Italia era troppo importante nell’operazione di recupero di Gheddafi. L’Istituto affari internazionali, nel gennaio 2009, si affrettò a spiegare che «non si tratta di un “patto di non aggressione”, ma semplicemente della specificazione di un obbligo che già deriva dal diritto internazionale. Non c’è nessuna incompatibilità con il Trattato Nato, qualora la Libia agisca nel quadro della “legalità internazionale”». La vicenda ben sintetizza, tuttavia, l’ambiguità del nostro atteggiamento verso Tripoli: si firma un patto di amicizia che implica la non aggressione, ma si è obbligati a tenersi le mani libere perché fidarsi è bene, non fidarsi è sempre meglio. Peraltro, l’assenza di un vero e proprio “piano b”, nel caso in cui Gheddafi fosse tornato ad essere il criminale riconosciuto dalla Comunità Internazionale per decenni, è apparsa evidente in queste ore.
Del resto, quanto ad ambiguità, negli ultimi giorni non siamo stati da meno. La Lega (quasi non fosse una forza di governo) che invita alla cautela e prende a modello le titubanze tedesche di una Berlino che non si è allineata al neo colonialismo di Francia e Inghilterra, infatti, è solo l’ultimo segno di una confusione e di una divisione interna alla maggioranza che evidenziano l’assenza di una visione di medio-periodo. E’appena il caso di ricordare, oggi, le vibranti proteste leghiste, levatesi appena qualche mese fa, per l’ingresso del socio libico – cioè dello stato guidato da Gheddafi – nel capitale di Unicredit.
Abbiamo già scritto dieci giorni fa che passare dal «non voler disturbare» il Colonnello a seguire pedissequamente francesi e inglesi rimangiandoci in poche ore un trattato di amicizia era pericoloso e sbagliato, e avrebbe aperto la strada per il disastro o per l’irrilevanza in un Paese nostra ex colonia, da cui dipendiamo per le risorse energetiche e la cui prossimità geografica ci rende i più esposti in Europa. Quello che proponevamo era che, come si è trattato con Hamas e Hezbollah, l’Italia mediasse in prima persona con il dittatore tornato ad essere un paria internazionale. Ci toccava, ci spettava, e avremmo difeso la nostra centralità con Tripoli e nel Mediterraneo, tanto più che non fummo certo noi, da soli, a riavvicinare l’ex intoccabile Gheddafi, ma anzi agimmo all’interno di un quadro internazionale che ci spingeva ad essere avamposto di quella riappacificazione.
Questo conflitto peraltro ha molte particolarità, fra cui una strana forma di appoggio alla coalizione anti-gheddafi da parte proprio di Hezbollah, il partito libanese islamista filo siriano e filo iraniano, che ha deciso di inserirsi nel grande gioco facendo portare avanti al Libano la risoluzione 1973 delle Nazioni Unite che ha autorizzato la no fly zone e, di fatto, ha aperto la strada alla guerra. Un dato che abbiamo analizzato in questi giorni e che rende ancora più chiaro che quella in gioco in queste ore è una partita di vitale importanza per gli assetti geo-strtategici del futuro. Una partita che riguarda noi prima da tutti gli europei, e che avremmo potuto giocare in prima fila, con un approccio meno provinciale e distratto. Ci troviamo invece a chiederci come mai Silvio Berlusconi non sia stato invitato al tavolo con Usa, Francia e Regno Unito, sabato, al vertice di Parigi. Per avere una sedia occorreva prima avere una politica estera.