L’Italia dovrebbe favorire un colpo di stato libico

L’Italia dovrebbe favorire un colpo di stato libico

Nell’arco di poco più di un mese gli scenari nel Mediterraneo sono radicalmente mutati e con essi le prospettive della politica estera italiana. L’Italia ha perso tre referenti politici e partner economici di primaria importanza. Mubarak e Ben Ali, vittime delle rivolte di Egitto e Tunisia, sono stati spodestati. Gheddafi controlla solamente una parte del Paese ed è ormai un leader screditato che deve far fronte a una guerra civile.

La rivolta nel mondo arabo e nel Mediterraneo – e la crisi libica in particolare – pone rilevanti interrogativi sul ruolo dell’Italia e sulla salvaguardia dei suoi interessi all’interno di un’area che, partendo dal centro Europa passa per i Balcani, tocca la Turchia e scorre per tutta la sponda sud del Mediterraneo, rappresenta il raggio di proiezione vitale del nostro Paese.

È in questi quadranti che l’Italia negli ultimi decenni è riuscita ad esercitare la propria influenza, creare forme di stabilità, ottenere rifornimenti energetici vitali per la crescita del paese e relazioni commerciali proficue. Ed è da qui che ora corre il rischio di essere esclusa o di giocare un ruolo decisamente minore. Se per altri attori internazionali la partita può contare ma non minaccia interessi strategici, per l’Italia è assai più decisiva.

L’attuale fase di stallo in Libia, che vede le forze del regime e quelle dei rivoltosi affrontarsi, ma che non mostra nessuna delle due parti così forte da prevalere sull’altra, è una complicanza ulteriore al difficile quadro della nostra politica mediterranea. L’Italia, in particolare, deve temere tre rischi. Il primo è quello di un’instabilità prolungata che causerebbe ulteriori allarmi umanitari, alimenterebbe l’immigrazione, comporterebbe l’allungarsi dell’interruzione delle forniture energetiche e, in prospettiva più lontana, consentirebbe l’infiltrazione del radicalismo islamico (in particolare in Cirenaica e in città come Derna, da sempre luogo di provenienza di molti queadisti).

Il secondo rischio è la permanenza al potere di Gheddafi. Il Colonnello è ormai tornato ad essere il mad dog del Medio Oriente, come lo era negli anni Ottanta sotto la presidenza di Ronald Reagan. In 15 giorni ha praticamente bruciato i 15 anni di percorso di legittimazione – a cui l’Italia ha grandemente contribuito – intrapreso dopo l’isolamento internazionale. Sarà difficile tornare a stringergli la mano, altrettanto complesso sarebbe mantenere fede al Trattato d’amicizia italo-libico, anche se bisognerebbe tener presenti i contenuti politici e storici dell’accordo (le scuse al popolo libico che non possono essere ritirate) e non solo quelli economici.

Il terzo rischio è quello di un’influenza sul paese di nuovi attori. Il primo fra tutti è una Cina desiderosa di petrolio e pronta a offrire manodopera a basso costo. Un dato piuttosto clamoroso: allo scoppio della crisi Pechino ha rimpatriato circa 30 mila persone che lavoravano in Libia, silenziosamente entrate negli ultimi anni. I nuovi leader libici, chiunque essi siano, potrebbero veder bene il rapporto con i cinesi per smarcarsi da vecchie amicizie o da vicini scomodi.

Ma l’Italia deve guardarsi anche dal neo-attivismo britannico. Britannici e statunitensi, fin da subito, hanno preso posizioni molto dure conducendo una campagna da hard-liners contro Gheddafi, accompagnati da notizie, rilevatesi poi poco veritiere, di stragi e fosse comuni (Al Jazeera aveva riferito di 10 mila morti), di cui è difficile verificarne la veridicità perlomeno dal punto di vista numerico. Questo atteggiamento ha costretto prima un’Italia impreparata a un obbligato quanto fastidioso ripiegamento sulle posizione atlantiche. Poi, ad un completo sganciamento da Gheddafi e a un rovesciamento della propria iniziale posizione attendista («non lo disturbo» le speranzose parole di Berlusconi su Gheddafi che avrebbe anche potuto mantenere lo status quo).

Cosa può fare allora l’Italia per salvaguardare i propri interessi? Certamente non sarebbe utile favorire un intervento militare che costringerebbe l’Italia ad un ruolo attivo (sia per un intervento diretto, sia per la concessione dell’uso delle basi militari) e che incoraggerebbe i libici a pensare ad un ritorno delle mire coloniali italiane sul paese. Come sottolineato da Marta Dassù su La Stampa nessun intervento occidentale finisce con l’azione militare. Un “protettorato” sulla Libia ci costringerebbe a una lunga presenza militare, politica e civile. A 12 anni dal Kosovo siamo ancora lì.

L’Italia potrebbe invece, da una parte, intensificare gli sforzi umanitari, dall’altra, aumentare la pressione su Tripoli, in due direzioni. La prima ipotesi, la più difficile, è quella di lasciare una via di fuga al Colonnello, ossia lavorare ad un salvacondotto per lui e la sua famiglia. Questo potrà essere fatto se si sarà capaci di isolarlo completamente, indebolendolo delle armi di cui ha ancora disposizione (capacità di reclutare milizie di mercenari e colpire i rivoltosi, fedeltà di alcuni clan e amicizie internazionali, soprattutto in Africa). In questo senso l’avvio di una procedura di incriminazione del tribunale dell’Aja non è da accogliersi favorevolmente.

La seconda è quella relativa a un colpo di stato interno. Molti uomini di grande fedeltà al regime e alla stessa persona di Gheddafi l’hanno abbandonato nelle ultime settimane. Altri potrebbero farlo rovesciando il regime. Si tratta di capire chi possa farlo in breve tempo e di appoggiarlo. Il tempo gioca infatti a favore del Colonnello. Lo stallo prolungato gli consente di riorganizzarsi. Possono esistere ancora all’interno della sua stretta cerchia interlocutori pronti a confrontarsi in un governo provvisorio con i rivoltosi organizzatisi in Cirenaica? La soluzione del colpo di stato non solo consentirebbe all’Italia di uscire da questa crisi con qualche speranza, ma anche di salvare migliaia di vite umane evitando una guerra civile.  

*Ricercatore Ispi