“I popoli arabi devono essere padroni del proprio destino” questa una delle frasi più indicative del discorso di Nikolas Sarkozy pronunciate sabato pomeriggio nel vertice di Parigi che ha lanciato l’operazione Odissey Dawn. Le rivolte arabe degli ultimi due mesi hanno avuto un’origine prevalentemente endogena. Buona parte della popolazione in Egitto, Tunisia e in altri paesi ha ottenuto parziali risultati, coma la caduta degli autocrati o l’avvio di riforme. Se queste insurrezioni – che qualcuno chiama ottimisticamente rivoluzioni – porteranno all’avvio di un processo di democratizzazione dell’area è tutto da verificarsi. In Libia questa ipotesi appare molto lontana. Non solo perché non sappiamo chi siano e cosa vogliano gli oppositori e i rivoltosi organizzatisi a Bengasi, o perché persistano forti dubbi sul prevalere dei sentimenti d’identità nazionale sulle forze centrifughe, ma anche perché a questa situazione di incertezza ora si innesta l’intervento militare della comunità internazionale.
Qui i dubbi e gli interrogativi sono ancora maggiori. L’autorizzazione all’uso della forza da parte dell’Onu, concretizzatasi nei bombardamenti sulla Libia, non è sufficiente a garantire una vittoria rapida. Nel migliore dei casi ciò che si può prospettare è un impegno militare crescente della “coalizione dei volenterosi”, che porterebbe alla trasformazione dell’iniziale intervento umanitario nell’ennesimo “protettorato” occidentale (dopo Kossovo, Afghanistan e Iraq). La parabola di Muammar Gheddafi è probabilmente finita, ma quanto tempo, e soprattutto quanto impegno, ci vorrà per sbarazzarsi di lui non è affatto chiaro. Dipenderà anche dal supporto che parte della popolazione offrirà ancora a Gheddafi e alla sua capacità di ricompattare il paese contro il nemico esterno. Non sottovaluterei questo fattore. I tempi dell’intervento appaiono comunque sbagliati. Probabilmente, come denunciato dal Cancelliere tedesco Angela Merkel – non è stato ponderato a sufficienza. O lo è stato troppo visto che la rivolta libica era ormai fallita sul campo. Come si è già detto in queste pagine sarebbe stata utile un’iniziativa forte dell’Italia, con tempi di reazione corrispondenti agli interessi del nostro Paese, che possiede la storia e la posizione più complicate in rapporto alla Libia.
Invece, cent’anni dopo l’intervento di Giolitti in Libia, abbiamo subito la determinazione francese e siamo entrati in un’operazione che, se si guarda a un mese fa e al rapporto di amicizia tra il governo italiano e quello libico, dimostra tutta la schizofrenia della nostra politica estera. Al vertice di Parigi si è, di fatto, arrivati a cose fatte.
Se si svolge lo sguardo alla nostra impresa coloniale è curioso vedere come alcune costanti storiche persistano. Allora si era andati in Libia (a quel tempo del petrolio si sapeva poco) essenzialmente per dimostrare di appartenere alla categoria delle grandi potenze. Quello che ci spingeva ieri continua a spingerci anche oggi. Negli ultimi decenni la preoccupazione per il rango ha impresso sulla politica estera italiana una vera e propria ossessione per il riconoscimento, riflessa quasi nella stessa misura nell’obiettivo di fare parte del gruppo di testa e nel timore del declassamento, ed espressa nella tendenza a compensare la nostra insicurezza con il presenzialismo, fino a rovesciare il rapporto realistico tra ruolo e rango – seguendo l’imperativo di esserci sempre e comunque, anche solo per dimostrare che “l’Italia conta”. La richiesta di ottenere a Napoli la base di coordinamento militare dell’operazione sembra rientrare in questa logica.
Oggi, il gioco internazionale è diventato più libero del passato. L’Italia forse conta meno. Durante la guerra fredda eravamo rilevanti per la nostra posizione strategica “di confine”. La crisi nel Mediterraneo ci riporta, in una certa misura, in prima fila. Una condizione che aumenta, con i rischi, anche le responsabilità nazionali. Se è davvero così, l’Italia non ha oggi nessun interesse a lasciare che siano la Francia e la Gran Bretagna a disegnare il futuro della Libia, ma non ha neppure interesse ad accodarsi passivamente e, magari, a subirne i fallimenti. Non si tratta di “partecipare tanto per decidere poco”, ma di incidere sulle decisioni per noi vitali. Una linea di disimpegno alla tedesca, nel nostro cortile di casa, forse non sarebbe stata utile. Ma non lo sarebbe neppure una crisi prolungata che porterebbe a scenari di instabilità altamente preoccupanti, ad una somalizzazione o a una divisione del paese che forse altri accetterebbero. Per evitare questa deriva è il tempo che l’Italia eserciti influenza e cominci a pensare ad un esito favorevole di questa crisi, non solo ad alimentarla con l’offerta di partecipazione militare. Ciò che conta oggi più che mai non è il rango, ma il ruolo.