La famiglia reale saudita diffida di lui. Il premier israeliano Nethaniau non lo ascolta. Il presidente francese Sarkozy lo ha oscurato assumendo la leadership nella crisi libica. Per Obama sono state settimane difficili quelle della crisi mediorientale. Davanti al più grande movimento democratico che ha scosso il Medio Oriente, si è mosso in maniera incerta e confusa, come uno studente che non riesce a risolvere un’equazione con troppe variabili. Strobe Talbott, ex vice segretario di Stato nell’era Clinton, in un’intervista a Newsweek giustifica Obama affermando che il numero di decisioni che deve prendere un presidente può arrivare a travolgerlo. Ma più che una giustificazione si tratta di una presa d’atto.
Le indecisioni manifestate nel corso della crisi libica sono solo l’ultimo capitolo di una serie di incertezze cominciate tre mesi fa, quando in Egitto e in Tunisia esplodono le manifestazioni di protesta contro Mubarak e Ben Ali. Obama impiega parecchi giorni a prendere la decisione ma alla fine, dopo numerosi tentennamenti, si schiera dalla parte del popolo contro i due storici alleati degli Usa. I due dittatori cadono e c’è chi saluta la nascita di una nuova dottrina americana: un internazionalismo liberal, non interventista ma schierato dalla parte dei movimenti democratici.
Ma nei giorni successivi Obama comincia a contraddirsi. Quando i movimenti di protesta scuotono i regimi autoritari del Bahrain, dello Yemen e della Libia, la Casa Bianca sembra paralizzata dall’indecisione. L’equazione si complica, le variabili diventano troppo numerose. Diversi membri dell’amministrazione dicono che la nuova situazione che si sta creando in Medio Oriente fornisce agli Stati Uniti “l’opportunità di riallineare i nostri interessi e i nostri valori”. Ma non è vero.
Quando la famiglia reale (sunnita) del Bahrain chiede aiuto all’Arabia Saudita contro il movimento di protesta che nasce dalla maggioranza shiita del paese, Obama invita debolmente la famiglia regnante a percorrere la strada delle riforme ma non muove un dito e non solidarizza con gli insorti. Allora duemila soldati sauditi, alla testa di un piccolo esercito dei paesi del golfo, entrano nell’arcipelago del Golfo Persico senza neanche avvertire la Casa Bianca. Poi reprimono il movimento e fanno prevalere la loro ragion di stato. Hillary Clinton e Robert Gates chiedono di incontrare il re saudita, ma non vengono ricevuti. Il portavoce della Casa Bianca arriva a dire “che non si tratta di un’invasione”.
Qualcosa di peggio avviene nello Yemen, dove la settimana scorsa le truppe dei governo hanno represso nel sangue la rivolta popolare uccidendo dozzine di manifestanti. Ma anche in questo caso la reazione Usa è debole. In entrambi i casi si capisce perché. Perdere il Bahrain avrebbe rafforzato l’Iran e creato un terremoto nel mercato del petrolio. Un cambio della guardia ai vertici dello Yemen significava perdere un alleato che oggi chiude un occhio se gli aerei Usa fanno un’incursione su quel territorio per eliminare qualche base terrorista.
Anche quando esplode la guerra civile in Libia, Obama prende tempo. Molti si chiedono perché sia intervenuto in maniera forte per abbattere vecchi alleati come Mubarak e Ben Ali e assista distaccato a una battaglia popolare contro un dittatore nemico giurato degli Stati Uniti. La sua amministrazione è spaccata, tra un ministro della Difesa, Robert Gates, che non ne vuole sapere di impiegare le sue truppe in una terza guerra, e un’ambasciatrice all’Onu, Samantha Power, che spinge per una politica interventista. Obama sembra paralizzato. I giornali britannici scrivono che il primo ministro David Cameron sia esasperato per la indecisione della Casa Bianca. Anche in questo caso l’equazione è complessa. Obama non vuole irritare le piazze arabe che non vedono di buon occhio altre truppe americane in territorio arabo. Non può tirare la corda con il Pentagono che non ne vuole sapere. Ha problemi di bilancio che lo obbligano a tagliare la spesa pubblica. Sa che gli Usa non hanno particolari interessi economici da difendere in Libia. Così resta inerte per un mese, lascia che Gheddafi si riorganizzi contro i rivoltosi e cominci la sua offensiva vincente.
Finché la settimana scorsa Nicolas Sarkozy prende in mano la situazione assumendosi la responsabilità dell’attacco a Gheddafi. A quel punto Hillary cambia idea e impiega un paio d’ore a convincere Obama ad accodarsi a Parigi e Londra. Ma la Casa Bianca puntualizza che si tratta solo di attacchi aerei, niente truppe di terra, un’operazione lampo: giorni, non settimane. E ieri, come se avesse in mano una patata bollente di cui si vuole liberare, Obama ripete che nei prossimi giorni la guida della missione dovrà passare agli alleati europei o alla Nato.
Molti sostengono che sia stato il discorso che Obama pronunciò al Cairo nel novembre scorso a ispirare il movimento che ha scosso i paesi arabi. Ma dopo avere ispirato i giovani rivoltosi, Obama non è riuscito a sostenerli. Ha sollecitato la democrazia ma non ha tratto le conseguenze. In Libia ha aspettato a intervenire (obbligato dalla Francia) solo quando i ribelli rischiavano l’annientamento e una emergenza umanitaria era alle porte. In Bahrain ha assistito impotente all’invasione delle truppe saudite. Con i leader israeliani, irritati per il suo ruolo in Egitto, mostra una debolezza crescente: nonostante il primo ministro Benjamin Netanyahu non lo ascolti e continui a costruire nuovi insediamenti, Obama gli offre nuove forniture di caccia invisibili F-35.
Obama è un sofisticato intellettuale, ha una visione del mondo che prevede molte sfumature e forse proprio per questo il suo apparente idealismo si trasforma in una politica pragmatica dove le decisioni vengono prese caso per caso, tra dubbi e incertezze. Il numero di variabili è troppo alto perché Obama riesca a risolvere l’equazione e disegnare una dottrina coerente che tenga conto contemporaneamente degli interessi economici del paese, della lotta al terrorismo, delle elezioni presidenziali che sono ormai alle porte e dei valori che lui ha spesso enunciato. Obama sembra volere prima di tutto limitare i danni agli interessi americani, con la testa rivolta alla scadenza elettorale dell’anno prossimo. Senza una visione, rinunciando a svolgere una funzione di leadership. Molti sostengono che si tratti solo dell’inevitabile declino della grande potenza americana in un mondo ormai multipolare. Vera o falsa che sia questa previsione, Obama sembra essere il primo a crederci.